|   Lettera 
              ai Cappellani Militari 
             Cari Confratelli nel Sacerdozio: “Pace a voi!”  
            1. Con stima e affetto rivolgo a ciascuno 
              il saluto e l’augurio di Gesù Risorto. 
              Da tempo desideravo scrivere a voi che siete i primi e indispensabili 
              collaboratori del Vescovo, nonché fratelli nella straordinaria 
              grazia della vocazione sacerdotale e nella vita che ne consegue. 
              Non poche sono le occasioni per incontrarvi durante l’anno: 
              più di quanto immaginassi all’inizio, pensandovi sparsi 
              per tutta l’estensione della nostra Diocesi, in Italia e all’estero. 
              L’ amministrazione del sacramento della Cresima, del Battesimo, 
              le celebrazioni della Pasqua nelle Zone Pastorali, la Santa Messa 
              Crismale, la settimana di Aggiornamento teologico-pastorale, gli 
              Esercizi Spirituali annuali, le Visite pastorali alle realtà 
              militari, gli incontri individuali e altre forme e circostanze, 
              sono momenti preziosi e desiderati per incontrarci e sentirci vicini, 
              anzi “insieme”, non solo nella medesima missione pastorale, 
              ma, ancor prima, nello stesso destino di grazia: “Ne costituì 
              dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare” 
              (Mc 3, 14). 
              Le stesse Relazioni che mi avete inviato sono un modo per comunicare 
              tra noi. Con questo spirito le ho lette attentamente e vi ringrazio: 
              mi spiace solo di non riuscire a rispondervi personalmente come 
              avrei desiderio. 
              Comunque, nonostante la molteplicità delle occasioni, vorrei 
              potervi manifestare ancora di più la mia vicinanza di Padre 
              e Pastore! 
             La Lettera che vi scrivo ha questo scopo. E’ trascorso più 
              di un anno da quando il Santo Padre mi ha affidato la Chiesa dell’Ordinariato 
              Militare. Ed io, con trepidazione e fiducia, ho accettato la manifestazione 
              della volontà di Dio. 
              Ora, in un clima di famiglia – il Presbiterio –, sento 
              il bisogno di aprirvi il cuore e comunicarvi con semplicità 
              alcuni sentimenti e riflessioni perché, conoscendo meglio 
              l’anima del Vescovo, possiamo vivere il nostro Sacerdozio 
              in spirito di accresciuta comunione. Risuonano sullo sfondo le parole 
              del grande Vescovo e martire, Ignazio di Antiochia: “E’ 
              bene che camminiate in accordo con il pensiero del Vescovo. Il vostro 
              collegio dei presbiteri (...) è strettamente unito al Vescovo 
              come le corde alla cetra” (Lettera ai cristiani di Efeso IV). 
             
              2. Il primo sentimento che desidero condividere è la gratitudine 
              a Dio per la nostra Chiesa Particolare. Essa, come ho scritto nella 
              Lettera Pastorale (cfr Camminate secondo lo Spirito, 1-2) è 
              un mondo ricco di bontà e di bene; che stima i suoi Sacerdoti 
              e ne apprezza la presenza. E’ un “campo” particolarmente 
              fecondo per la pastorale dei giovani. Ho spesso constatato come 
              essi si rivolgano a voi con semplicità e fiducia, certi di 
              trovare un cuore di padre. Così, a qualunque livello e in 
              ogni ambiente, la presenza e l’operato dei Cappellani trova 
              globale considerazione, apprezzamento e disponibilità. 
             La Divina Provvidenza ci dona questa grande opportunità 
              pastorale e la Chiesa, attraverso la nostra sacerdotale vicinanza, 
              esprime la sua materna sollecitudine per tanti uomini che si dedicano 
              al loro dovere di sicurezza e di ordine con competenza, semplicità 
              e dedizione fino al sacrificio. Sono aspetti, questi, che noi Sacerdoti 
              possiamo cogliere e testimoniare di persona con sincera ammirazione. 
              Così pure siamo testimoni di come le loro famiglie, che fanno 
              parte della nostra Diocesi, condividono la missione impegnativa 
              dei loro cari; e conosciamo quanto il valore della famiglia - nonostante 
              difficoltà e crisi – sia sentito vivo e centrale. In 
              questa direzione, dobbiamo intensificare la pastorale specifica. 
             La nostra gratitudine al Signore per la grazia che ci dona di 
              poterci spendere in questo ampio campo, si esprime ogni giorno nella 
              Celebrazione Eucaristica, l’Azione-di- grazie per eccellenza. 
             
            
            3. Il secondo sentimento è per voi, cari Cappellani Militari. 
              Senza illusione o presunzione, mi sembra di conoscervi “da 
              tempo”. L’esperienza insegna che spesso, nei rapporti, 
              l’intensità del cuore supplisce e integra la brevità 
              del tempo. Penso ciascuno al proprio posto di lavoro dove l’obbedienza 
              lo ha inviato. Tutti siamo inviati da un’obbedienza più 
              alta: in questa prospettiva, sappiamo che nella vita sacerdotale 
              non è il “che cosa” o il “dove” che 
              innanzitutto conta, ma il “perché” e il “come”. 
              A ciascuno esprimo la mia stima e la mia gratitudine. 
             Come nella vita di tutti, anche nella nostra non mancano difficoltà, 
              a volte aridità e incomprensioni. Esse sono di diversa natura 
              e provenienza: ci sono prove che si possono sciogliere e superare, 
              altre che si devono solo portare. Quelle che non derivano da noi 
              stessi, dal nostro mondo interiore o dal nostro carattere, sono 
              le sofferenze che l’apostolo Paolo vive in prima persona nel 
              suo ministero: le vive come segno della necessaria partecipazione 
              alla croce di Cristo e 
              come modo efficace per generare le anime a Dio. Egli sa bene che 
              non si genera la vita senza dolore. Anche noi lo sappiamo e non 
              dobbiamo dimenticarlo strada facendo. Questa certezza di fede, che 
              si conferma e ravviva guardando al Crocifisso – che deve essere 
              sempre ben visibile nelle nostre chiese e nei nostri alloggi – 
              ci dona la capacità di resistere con fortezza e di guardare 
              avanti con serenità e fiducia. 
             
              4. Desidero ora aprirvi il cuore lasciandomi sollecitare dall’incontro 
              delle donne al sepolcro di Cristo, così come i quattro Vangeli 
              lo narrano. Al di là delle questioni esegetiche, i racconti 
              si arricchiscono a vicenda. In quel misterioso e pur luminoso contesto, 
              sgorgano le parole che vorrei fossero come il cuore di questa lettera: 
              “Non abbiate paura (…) Dite ai suoi discepoli e a Pietro 
              che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete” (Mc 
              16, 6-7). 
              Esse sono una missione per le donne: le ripetono agli Apostoli e 
              le ripetono a noi oggi. Risuonano rassicuranti nella mia anima: 
              lasciate che le ripeta io stesso a ciascuno di voi. 
             
              5. Sole, alle primissime luci dell’alba, le donne si recano 
              al sepolcro di Gesù. Non è difficile intuirne i sentimenti: 
              il loro cuore è come una tomba chiusa dal peso di un’immensa 
              pietra. Sembra che il sepolcro di Cristo si prolunghi nelle loro 
              anime: se da un lato corrono ansiose per raggiungere in fretta la 
              meta, dall’altro si trascinano sotto l’invisibile peso 
              della pietra tombale che non vorrebbero mai più rivedere. 
              Le guida l’intimo e irrefrenabile desiderio di stare ancora 
              vicini a ciò che rimane del Maestro; che si può vedere 
              e toccare; che dà la sensazione della sua presenza. Ma l’anima 
              è invasa da un acuto dolore e da una sconfinata tristezza, 
              conseguenza della morte di Gesù, ma anche della crudele violenza 
              con cui l’Agnello senza macchia è stato condotto al 
              “macello”. 
             L’assenza di Gesù provoca in loro smarrimento e vuoto: 
              da quell’abisso sale l’antica e universale domanda: 
              chi sono io? che senso ha il mio vivere? che sarà di me? 
              Incontrando un giorno non lontano Gesù, Maria di Magdala 
              – oppressa da “sette demoni” (cfr Lc 8, 2) – 
              aveva sentito la risposta. Nella verità delle parole del 
              Maestro aveva scoperto la sua libertà. Nel suo sguardo aveva 
              sentito la stima e l’amore di Dio: “Tu sei prezioso 
              ai miei occhi, sei degno della mia stima e io ti amo” (Sl 
              43). E a lui aveva affidato se stessa, la propria vita. 
              Ora, di fronte al sepolcro, Maria è ferita da un profondo 
              dolore, ma anche da una acuta delusione: delusione per un mondo 
              infranto, un sogno finito. E, insieme, è trafitta da una 
              struggente nostalgia per un tempo – troppo breve – di 
              speranza e di vita. 
             
              6. Anche i discepoli di Cristo – di ieri e di oggi – 
              possono essere ghermiti e attraversati da questi pensieri ed avere 
              l’anima scossa dagli stessi sentimenti. Ognuno, come Maria, 
              deve percorrere la via della purificazione della fede e dell’amore. 
              La fede è luce, ma oscura; è oscurità, ma luminosa. 
              Anche grandi Santi hanno conosciuto la “notte”. 
              Noi Sacerdoti non siamo esenti: ognuno, secondo il proprio cammino 
              e il disegno di Dio, può avvertire la prova di Maria. A volte 
              è l’esperienza più dolorosa della nostra povertà, 
              della fragilità personale: toccare con mano, forse con umiliazione, 
              lo scarto tra l’amore di Dio, la santità del Sacerdozio 
              ricevuto, e la misura della nostra risposta. 
              Altre volte, la prova può nascere dalle difficoltà 
              del ministero pastorale. Ci sentiamo come il seminatore generoso 
              della parabola (cfr Mc 4) che sparge il seme del Vangelo senza risparmiarsi 
              e non vede altro che pietre e spine. Penso alla fedeltà della 
              vostra quotidiana presenza là dove la Chiesa vi manda: una 
              presenza che non è solo un “esserci”, ma relazionarsi 
              con tutti, offrire vicinanza e ascolto, disponibilità visibile 
              del proprio servizio. Penso alla fedele celebrazione della Santa 
              Messa a volte con poche presenze – qualche volta “soli” 
              - ; alla fatica di conquistare giorno dopo giorno la fiducia di 
              coloro che vi sono affidati; alla tentazione di assuefarvi alle 
              situazioni e dare tutto per scontato; allo sforzo per ricominciare 
              ogni giorno senza arrendervi; alla prontezza per non perdere nessuna 
              occasione, nessun piccolissimo appiglio per indicare alle anime 
              il volto di Cristo; alla continua fantasia per inventare e tentare 
              nuove vie e iniziative d’ incontro con le persone; alla vostra 
              sofferenza di pastori nel registrare a volte rifiuti e incomprensioni. 
             
              7. Al sepolcro, un nuovo dolore attende le donne: la tomba è 
              aperta e vuota. Il corpo esangue di Gesù, ultima reliquia 
              di un mondo nuovo e appena intravisto, è scomparso. In fondo, 
              si accontentavano di poco: poter rimanere alcuni attimi vicine a 
              ciò che rimaneva di lui e prestargli l’estremo tributo 
              di pietà ungendolo con i rituali aromi. Ora, il senso dell’abbandono 
              è completo. Ma il Risorto è vicino!  
               
              Consideriamo ora l’incontro con Maria di Magdala: certamente 
              Giovanni (cap 20) trascrive quanto la donna ha raccontato innumerevoli 
              volte. E’ la storia di un incontro che esprime, ma anche travalica, 
              l’esperienza singola, lasciando trasparire il dinamismo di 
              ogni rapporto con il Signore: sia all’inizio della fede come 
              nella sua crescita, sia nel momento della sofferenza come della 
              tentazione. 
             Colpisce che Maria non riconosca subito il Signore. Anche i due 
              discepoli sulla via di Emmaus non lo riconoscono (cfr Lc 24). A 
              parte altre considerazioni, Maria è talmente chiusa nel suo 
              dolore da non vedere altro: è come “fuori” dalla 
              realtà. E’ così presa dall’assenza del 
              Maestro da non coglierne la presenza.  
             Può accadere anche a noi: ostacoli, delusioni, progetti, 
              aspirazioni personali, possono diventare talmente ingombranti da 
              possederci e renderci ciechi di fronte alla vicinanza di Cristo. 
              Quando l’uomo si lascia prendere troppo dai suoi problemi 
              e dai suoi calcoli, li assolutizza e si allontana dalla realtà: 
              entra in un mondo solo suo. E lì si chiude. Le anime sagge 
              ci insegnano a saper sorridere di noi stessi. 
             
              8. Ma Gesù risorto non lascia Maria sola con se stessa, con 
              il suo dolore che rischia di estraniarla per sempre. Rompe questo 
              isolamento e la interroga: “Donna, perché piangi? Chi 
              cerchi?”.  
              Come sulla via di Emmaus, Cristo domanda, provoca il dialogo. La 
              logica è la stessa: vuole che l’uomo prenda coscienza 
              chiara dei suoi stati d’animo; li faccia emergere dal profondo 
              dell’anima; li guardi in volto e li chiami per nome; ne colga 
              i motivi a volte nascosti. Ciò è necessario sia per 
              il sentimento della gioia che per quello della sofferenza, del disagio 
              interiore come del malumore: perché sono così triste, 
              insofferente, insoddisfatto?  
              Maria, dovendo rispondere allo “sconosciuto”, è 
              costretta a dire con chiarezza la ragione più vera e profonda 
              del suo dolore: dicendola a lui, la dice innanzitutto a se stessa 
              e ne vede la portata. Nello stesso tempo, dichiara la sua volontà 
              di coinvolgimento, la sua disponibilità a fare tutto ciò 
              che è possibile per affrontare e vivere in modo costruttivo 
              la situazione: “Se l’hai portato via tu, dimmi dove 
              lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Era tutto ciò 
              che Maria poteva fare in quel momento: e l’avrebbe fatto con 
              slancio. Quanto è importante per tutti, anche per noi! Nelle 
              situazioni difficili o dolorose, innanzitutto fare tutto ciò 
              che è possibile in concreto, senza attenderci la perfezione 
              impossibile delle cose umane. 
            
            9. Solo a questo punto il Risorto irrompe nel suo cuore chiamandola 
              per nome: “Maria”. E gli occhi di lei si aprono: “Maestro!”. 
              In questo istante – lungo quanto il nome – si capovolge 
              l’universo: la tomba dell’anima si spalanca, la tenebra 
              diventa luce, Maria risorge alla vita. Ella vede il volto del Risorto 
              e naufraga in lui. 
              Non è questo, forse, il dinamismo della fede? La fede è 
              sempre un incontro, un riconoscersi reciproco, un dirsi di “si” 
              l’un l’altro. E’ chiamarsi per nome. Ognuno di 
              noi è stato chiamato per nome: dimenticare questa avvincente 
              realtà, viverla in modo scontato, significa entrare nella 
              “tomba”, così come Maria di Magdala si era segregata 
              sotto la grande pietra del suo tormento. 
             Dall’eternità Dio ci conosce per nome e ci ha chiamati 
              alla vita. I nostri genitori hanno voluto con amore dei figli, ma 
              non ci hanno scelto. Dio sì! Ci ha chiamati poi alla fede 
              e al Sacerdozio. Perché proprio noi? Gesù, sul monte, 
              ne scelse dodici e l’evangelista ne indica il nome uno per 
              uno (cfr Mc 3, 13-19). Non sceglie in massa o a caso ma personalmente, 
              ognuno con il proprio volto, con una storia irripetibile, un progetto 
              particolare. Con ciascuno di noi vuol fare qualcosa di unico per 
              il bene di tutti. Ci chiama per nome nel suo Corpo che è 
              la Chiesa. L’obbedienza alla Chiesa è la risposta all’appello 
              di Cristo: come Maria, risponde con slancio di fede e d’amore: 
              “Maestro!”. Nella Chiesa siamo chiamati alla fraternità 
              che si fonda su Cristo che ci ha redenti, ci ha resi figli dello 
              stesso Padre e, noi Sacerdoti, membri dell’unico Presbiterio. 
              La fraternità sacerdotale è una chiamata precisa e 
              ineludibile nonostante le sensibilità diverse: è un 
              criterio certo e necessario della nostra radicale risposta a Cristo. 
               
              Ancora, ognuno di noi è chiamato nella sua vita di preghiera. 
              Come Sacerdoti, sappiamo che la “vita di preghiera” 
              non si esaurisce nelle “preghiere” a cui siamo per altro 
              tenuti. La meditazione della Parola di Dio, la Liturgia delle Ore, 
              il santo Rosario, la visita al SS. Sacramento, sono espressioni 
              e momenti necessari e vitali di quella vita-di-preghiera che è 
              un costante, consapevole ed esplicito riferimento a Cristo vivo 
              e palpitante, vicino a noi come a Maria presso il sepolcro vuoto. 
              Ciò significa, fra l’altro, considerare le vicende 
              liete e tristi, personali e comunitarie, “sub lumine aeternitatis”, 
              come insegnano i Maestri dello spirito: cioè nella luce di 
              Cristo, con i suoi occhi, nella logica delle Beatitudini e della 
              Pasqua di morte e risurrezione. 
             Soprattutto, ogni giorno il Signore ci chiama per nome nella Celebrazione 
              Eucaristica, luogo sommo dell’incontro. Lì, Cristo 
              non solo pronuncia il nostro nome con incomparabile predilezione, 
              ma – a differenza di Maria – si consegna a noi, alle 
              nostre mani consacrate. Ci chiama ad agire “in persona Christi”! 
              Chiede di essere ospitato nella dimora della nostra anima per poterci 
              lui stesso ospitare nel suo ineffabile abbraccio. Così come 
              Maria va a visitare il corpo del Signore e si trova visitata da 
              lui: lo chiama con la voce del cuore e si sente chiamata; lo cerca 
              con struggente nostalgia e si scopre cercata. 
             
              10. Il dinamismo della fede non è concluso. Matteo racconta 
              che le donne, “avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono” 
              (Mt 28, 9). Anche Maria, nel vangelo di Giovanni, si slancia verso 
              il Signore, ma l’evangelista riporta una particolare reazione 
              di Gesù: “Non mi trattenere”. 
              Come non pensare alla richiesta spontanea e appassionata di Pietro 
              sul Tabor davanti a Cristo trasfigurato? Il gaudio e la beatitudine 
              erano tali da chiedere di “fermare” per sempre la bellezza 
              sublime di quel momento: “Maestro, è bello per noi 
              stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e 
              una per Elia” (Lc 9, 33). La risposta di Gesù non è 
              stata a parole, ma con il repentino cambio di situazione: “Mentre 
              parlava così, venne una nube e li avvolse” (Lc 9, 34). 
             Nei due episodi, pur nella diversità dei contesti e dei 
              messaggi, vi è un elemento comune: il desiderio dell’uomo 
              di fissare per sempre la bellezza e la felicità; di “fermare” 
              il tempo nella sublimità raggiunta; di “restare” 
              davanti alla gloria di Dio e respirare la sua luce. Ma se questo 
              è il comprensibile e irrefrenabile anelito dell’uomo, 
              il suo essere pellegrino della fede gli impedisce di fermarsi e 
              gli chiede di continuare il cammino fino a quando, superato il tempo, 
              entrerà in Cielo. 
            * Così è anche per noi. In Gesù, Dio è 
              venuto incontro all’uomo, si è fatto disponibile; ma 
              l’uomo non può disporre delle manifestazioni di Dio. 
              Non possiamo fissare i momenti in cui, nella vita spirituale, egli 
              lascia intravedere il suo volto e noi “tocchiamo il cielo”. 
              Solo lui decide i tempi e i modi. Ci chiede di crescere in una fede 
              adulta che sa vederlo e incontrarlo non solo nei momenti desiderati 
              di luce e di consolazione, ma anche in quelli temuti di oscurità 
              e di croce. Credendo che tutto è grazia perché egli 
              è sempre presente, anche quando è dolorosamente nascosto: 
              “Veramente tu sei un Dio nascosto” (Is 45, 15). 
            * Per noi Sacerdoti, poi, si aggiunge l’immeritata vocazione 
              di essere segno sacramentale di Gesù, Buon Pastore. Ciò 
              esige la libertà e l’ascesi di ripetere ogni giorno 
              il “sì” definitivo pronunciato davanti a Dio 
              e alla Chiesa nel giorno della sacra Ordinazione. Prostrati sul 
              pavimento, quasi uno con esso, eravamo consapevoli che la potenza 
              dello Spirito stava per compiere in noi qualcosa di straordinariamente 
              grande, di unico, di infinitamente superiore alle nostre capacità 
              e meriti. Eravamo coscienti di questo; a questo ci eravamo preparati 
              negli anni del Seminario; questo volevamo con tutto noi stessi. 
              Ma altresì eravamo consapevoli delle conseguenze, della messa 
              in gioco di tutta la nostra libertà, della vita, di ogni 
              attimo e respiro. Tutto di noi stava per ricevere il sigillo a fuoco 
              dello Spirito: da quel momento più nulla di noi – intelligenza 
              e cuore, corpo e anima, tempo – sarebbe stato solo “nostro”; 
              nulla sarebbe “uscito” da quel marchio divino. Tutto 
              avrebbe portato l’impronta indelebile del Buon Pastore, del 
              suo volto, del suo quotidiano dare la vita per le anime. Era il 
              nostro destino: per sempre! Eravamo coscienti di questo e, negli 
              anni, tale consapevolezza si è confermata e arricchita.  
             In questa luce, non ci devono legare né le delusioni pastorali 
              né i successi: tutto è grazia nella libertà 
              dello spirito, perché Dio è sempre più grande. 
              Non dobbiamo dimenticare di essere mendicanti di Infinito, viandanti 
              verso il Cielo, fatti per la vita eterna. Quando il fine ultimo 
              del nostro essere si offusca, subentrano altre prospettive, ne conseguono 
              preoccupazioni inutili, attaccamenti troppo umani, insoddisfazioni 
              sorde che possono condurre lontano. 
             
              11. L’episodio si avvia alla conclusione e, in un certo senso, 
              al suo culmine. Nei quattro Vangeli, seppure in modi diversi, si 
              giunge al medesimo messaggio: alle donne l’angelo non solo 
              annunzia la risurrezione, ma affida un mandato: “Non abbiate 
              paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E’ 
              risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. 
              Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede 
              in Galilea. Là lo vedrete” (Mc 16, 6-7).  
              Nel racconto di Marco, si legge che le donne fuggirono spaventate 
              e si guardarono bene dal parlare: “non dissero niente a nessuno, 
              perché avevano paura” (Mc 16, 8). Maria di Magdala, 
              invece, raccontò quanto aveva visto sfidando l’incredulità 
              dei discepoli. 
             Questo lieto annunzio Maria lo ripete anche a noi, carissimi Sacerdoti. 
              Quante volte, nella mia esperienza di Sacerdote e di Vescovo, ho 
              toccato la verità di queste parole! Anche in questo primo 
              anno di ministero nella nostra Chiesa, innumerevoli volte ho visto 
              che il Signore ci precede in Galilea. Ognuno ha la sua Galilea, 
              la situazione pastorale che il Vescovo gli ha affidato. Perché 
              il Signore si lasci vedere, è essenziale che la Galilea non 
              la scegliamo noi, ma l’accogliamo come un dono: anche quando 
              si presenta particolarmente difficile.  
              Nonostante la diversità dei compiti, dei luoghi e delle forme 
              di pastorale, dobbiamo ricordare che la Galilea dove il Risorto 
              ci precede e vuole incontrarci è fatta di anime. E’ 
              questo il luogo dove il Signore ci previene con la potenza della 
              sua grazia. Solo questo! Molte volte restiamo sorpresi incontrando 
              tesori di bontà, di pulizia morale, di eroismo semplice, 
              in situazioni che sembrerebbero lontane o impossibili. E invece 
              lo Spirito del Risorto, attraverso vie misteriose, ha lavorato nella 
              profondità dei cuori, ha suscitato pensieri alti, ha sostenuto 
              sforzi intrepidi che ci lasciano sconcertati e ci fanno cadere in 
              ginocchio per adorare il Signore ricco di misericordia. Penso alla 
              fedeltà coniugale, all’onestà nel lavoro, al 
              superamento dei rancori fino al perdono delle offese, alla faticosa 
              educazione dei figli, a situazioni di sofferenza fisica o morale 
              portate con ammirevole serenità e forza, alla quotidiana 
              cura dei malati e degli anziani, alla solidarietà spicciola 
              così diffusa e silenziosa, alla preghiera personale, alla 
              testimonianza cristiana fino a rischio della propria vita… 
               
              Anche all’estero, nelle missioni di pace, si scoprono tesori 
              di bontà, di religiosità, di fede sopravvissuta a 
              tutto. Si tocca con mano che la carità di anime umili sviluppa 
              una fantasia che commuove. Si vede che il Vangelo infonde una vitalità 
              che nessuna persecuzione riesce a piegare: e quando sembra che tutto 
              sia spento, sotto la cenere si riaccende la fiamma: “Molti 
              hanno tentato di sopprimere il nome del Crocifisso – scriveva 
              già san Giovanni Crisostomo – ma hanno ottenuto l’ 
              effetto contrario. Questo nome rifiorì sempre di più 
              e si sviluppò con progresso crescente” (Om. 4). 
             
            12. La domanda, in queste situazioni, è spontanea: da dove 
              viene tanta sapienza e tanta virtù in terreni che sembrano 
              incolti e a volte devastati? Non di rado, se ci è dato di 
              entrare nei cuori, scopriamo che nel fondo dell’anima è 
              viva la figura dei genitori, del Sacerdote, di una catechista, il 
              ricordo della processione del paese, una frase sentita un giorno, 
              una parola del Vangelo, la tenacia di un Papa ammalato e intrepido, 
              l’ esempio buono di chi nemmeno si accorgeva di essere osservato, 
              un’immagine sacra che ha attirato l’attenzione e che 
              è custodita gelosamente, una melodia, una liturgia ben celebrata 
              che ha incantato l’anima, un momento di solitudine o uno spettacolo 
              avvincente della natura…Come è possibile elencare tutte 
              le vie della grazia, che con mano invisibile accarezza le anime 
              e le dispone al Signore?  
              Quante volte Dio ci fa incontrare improvvisamente un “fiore” 
              là dove tutto ci sembrava “deserto”! “Là 
              mi vedranno”! E’ opera sua per dirci di non cedere mai 
              allo scoraggiamento, di non pretendere di catalogare ogni cosa, 
              di vedere i risultati delle nostre fatiche pastorali: tutti e sempre. 
              Ci chiede di lavorare con grande generosità e impegno, senza 
              risparmiarci; ma poi di lasciare il raccolto a lui, grati di aver 
              potuto seminare. Ed egli, nella sua misericordia verso di noi suoi 
              Ministri, ci fa anche vedere qualche risultato per sostenere il 
              nostro lavoro e incoraggiare la nostra debolezza. Per ricordarci 
              che nessun seme buono va perduto: tutto, prima o dopo, riaffiora, 
              fiorisce e porta frutto: “uno semina e uno miete” (Gv 
              4,37). Sì, egli ci precede nella Galilea delle anime e lì 
              ci attende per farsi vedere: per sorriderci, confermare la fiducia 
              e incoraggiare il nostro impegno: per essere uomini di speranza. 
              Dobbiamo solo tenere aperti gli occhi lavorando con gioia e dedizione. 
               
              13. Questa certezza di fede ci rassicura ma non ci lascia “tranquilli”. 
              Ben lontani dal cedere all’inerzia spirituale e a pigrizie 
              pastorali, sapere che il Signore “ci precede” nelle 
              anime ci stimola a lavorare di più, con rinnovata forza di 
              convinzione e accresciuto slancio di impegno. L’assicurazione 
              che nulla del bene compiuto va disperso, perché raccolto 
              e fecondato dalle mani invisibili dello Spirito, accresce il nostro 
              entusiasmo e ci dona un supplemento di coraggio, di attenzione, 
              di energia.  
               
              Nel nostro ministero, cari Confratelli, di solito non sono possibili 
              grandi e organiche programmazioni: anche per questo non è 
              necessaria una complessa e articolata organizzazione pastorale della 
              Curia. Ma questo ci richiama fortemente all’essenziale del 
              nostro apostolato: la vicinanza costante, disponibile, propositiva 
              alla gente. Sì, come abbiamo detto altre volte, la nostra 
              è la tipica pastorale “da persona a persona”, 
              è “pastorale della presenza”: una presenza umile, 
              vivace, intelligente, cordiale. In una parola, appassionata! 
              Una presenza che si fa condivisione sacerdotale della gioia e del 
              dolore. La preparazione che fate ai sacramenti non è forse 
              un modo concreto per condividere momenti decisivi della vita degli 
              uomini? Momenti che chiamano in causa la riscoperta della fede, 
              la verità di se stessi, responsabilità più 
              grandi; ma anche possono essere occasione di domande, di trepidazioni 
              e di timori! La famiglia è considerata un grande valore nel 
              nostro ambiente; ma i problemi esistono. Voi siete testimoni di 
              preoccupazioni e drammi che vi vedono consiglieri di comprensione, 
              perdono, riconciliazione. E poi, quanto la vostra presenza è 
              richiesta e apprezzata quando il dolore bussa alla porta dell’esistenza! 
              In Italia e all’estero. Tutti siamo esposti e inermi perché 
              creature: non ci sono responsabilità, gradi, età che 
              ci rendano immuni davanti al dolore e ai pericoli. La vostra condivisione 
              discreta, pronta e fedele, entra nei cuori e resta per sempre; è 
              decisiva perché l’uomo possa vedere il volto di Gesù 
              Buon Pastore e cogliere la maternità della Chiesa. 
             L’annuncio pasquale – “Egli vi precede in Galilea. 
              Là lo vedrete” - ci invita a cercare con fiducia “ 
              le nostre pecorelle” e a conoscerle per nome, come il Buon 
              Pastore. Siamo incoraggiati a dare la vita per loro: la disponibilità, 
              l’ascolto paziente, un gesto di paternità sacerdotale, 
              una parola di speranza perché fatta di Cielo, quel Cielo 
              che il Risorto ha spalancato e che tutti desiderano anche senza 
              saperlo.  
             
              14. In questo contesto, le piccole cose assumono un’importanza 
              speciale; a volte – come l’esperienza insegna - possono 
              essere decisive per un’anima. Quante volte, durante le celebrazioni 
              liturgiche nelle nostre Comunità, sono rimasto colpito dalla 
              cura di ogni particolare: dalla tenuta del tabernacolo alla pulizia 
              della chiesa; dal candore delle tovaglie al decoro dei vasi sacri 
              e dei paramenti; dalla scelta dei fiori – mai di plastica 
              salvo in casi particolari come in certe zone dell’estero – 
              all’uso suggestivo dell’incenso; dal coro dei militari 
              al buon impiego di appropriati strumenti per il canto e la musica 
              sacra; dal servizio dei ministranti opportunamente preparati ai 
              lettori; dalle intonate intenzioni di preghiera alla sempre lodevole 
              processione offertoriale; dalla cura dell’immagine della Santa 
              Vergine e dei Santi alle parole di saluto all’inizio della 
              Celebrazione.  
              Sempre pensavo come quell’ “insieme”, frutto di 
              sacrificio vostro e di altri, fosse un grande annuncio di Gesù 
              Risorto, una catechesi vissuta, un’esperienza che lasciava 
              il segno indelebile nei partecipanti. Attraverso il linguaggio ricco 
              della Liturgia, che coinvolge tutti i sensi dell’uomo, l’anima 
              percepisce l’Invisibile, se ne sente avvolta misteriosamente, 
              ne resta segnata e nutrita. Tutto diventa segno e annuncio del Signore 
              e della sua bellezza che consola e salva: gesti e parole, colori 
              e suoni, profumi e silenzi.  
               
              Così, ho potuto spesso constatare l’utilizzo di semplici 
              strumenti o segni che aiutano la fede: l’edizione tascabile 
              del Vangelo, sintesi del Catechismo, piccoli testi o pagelline delle 
              preghiere del cristiano, dell’esame di coscienza, del Rosario, 
              medaglie della Madonna o dei Santi, crocifissi sia da tenere personalmente 
              sia da esporre negli ambienti – cosa da diffondere in forma 
              sempre più ampia -. Sono mezzi concreti ed apprezzati che, 
              nelle mani di Dio, portano frutto anche grande. Nulla di ciò 
              che appare “piccolo” e semplice deve essere trascurato 
              o peggio deriso - né delle cose né delle circostanze 
              – sapendo che nulla è piccolo di ciò che è 
              fatto con amore e per il bene delle anime. 
              Su queste direttrici pastorali vi esorto a continuare con rinnovata 
              convinzione, fiducia e generosa inventiva. 
            15. I motivi per venir meno alla fiducia non mancano: i segni più 
              evidenti del nostro tempo non sono incoraggianti e ci fanno interrogare 
              a volte sulla incisività dell’annuncio evangelico, 
              sulla capacità di indirizzare in senso cristiano la cultura 
              contemporanea. Il secolarismo, con l’appoggio del consumismo, 
              sembra vincente e devastante sui singoli e sulla società 
              insidiandone i valori portanti, come la dignità della vita 
              umana dal concepimento al suo naturale tramonto, la bellezza e la 
              serietà dell’amore, la santità del matrimonio, 
              l’unità e la fecondità della famiglia.  
              Ma la nostra esperienza di Pastori, che hanno l’incomparabile 
              grazia di accedere nell’intimo delle anime, attesta che il 
              bene – quello profondo – è immensamente più 
              grande del male. Parafrasando un noto principio di saggezza popolare, 
              dobbiamo dire ad alta voce che, se nella foresta gli alberi che 
              cadono sono molti e fanno rumore, non dobbiamo dimenticare che la 
              foresta che cresce silenziosamente è sterminata! E’ 
              questa bontà nascosta, silenziosa e diffusa che, insieme 
              all’amore di Dio, fa crescere l’umanità e scrive 
              la storia più vera di questo magnifico e drammatico mondo. 
             Cari Confratelli nel Sacerdozio, accogliete questa Lettera con 
              benevolenza: l’ affido alla vostra sensibilità di credenti 
              e di Pastori. Attraverso il filo evangelico dell’incontro 
              delle donne con il Risorto, avete certamente colto anche il mio 
              ministero episcopale in questo primo anno tra voi e con voi. Ricordiamo 
              che il Signore non solo ci accompagna, ma anche ci precede!  
              Vi saluto con le parole dell’Apostolo Paolo: 
              “Fratelli, state lieti, tendete alla perfezione, fatevi coraggio 
              a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio 
              dell’amore e della pace sarà con voi” (2 Cor 
              13, 11). 
             Vi benedico con affetto. 
             
              Roma 4 ottobre 2004 
              San Francesco d’Assisi 
              Patrono d’Italia 
            Angelo Bagnasco 
              Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia   |