Torna all'indice
 
Egli vi precede in Galilea
 

Lettera ai Cappellani Militari

Cari Confratelli nel Sacerdozio: “Pace a voi!”

1. Con stima e affetto rivolgo a ciascuno il saluto e l’augurio di Gesù Risorto.
Da tempo desideravo scrivere a voi che siete i primi e indispensabili collaboratori del Vescovo, nonché fratelli nella straordinaria grazia della vocazione sacerdotale e nella vita che ne consegue.
Non poche sono le occasioni per incontrarvi durante l’anno: più di quanto immaginassi all’inizio, pensandovi sparsi per tutta l’estensione della nostra Diocesi, in Italia e all’estero. L’ amministrazione del sacramento della Cresima, del Battesimo, le celebrazioni della Pasqua nelle Zone Pastorali, la Santa Messa Crismale, la settimana di Aggiornamento teologico-pastorale, gli Esercizi Spirituali annuali, le Visite pastorali alle realtà militari, gli incontri individuali e altre forme e circostanze, sono momenti preziosi e desiderati per incontrarci e sentirci vicini, anzi “insieme”, non solo nella medesima missione pastorale, ma, ancor prima, nello stesso destino di grazia: “Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare” (Mc 3, 14).
Le stesse Relazioni che mi avete inviato sono un modo per comunicare tra noi. Con questo spirito le ho lette attentamente e vi ringrazio: mi spiace solo di non riuscire a rispondervi personalmente come avrei desiderio.
Comunque, nonostante la molteplicità delle occasioni, vorrei potervi manifestare ancora di più la mia vicinanza di Padre e Pastore!

La Lettera che vi scrivo ha questo scopo. E’ trascorso più di un anno da quando il Santo Padre mi ha affidato la Chiesa dell’Ordinariato Militare. Ed io, con trepidazione e fiducia, ho accettato la manifestazione della volontà di Dio.
Ora, in un clima di famiglia – il Presbiterio –, sento il bisogno di aprirvi il cuore e comunicarvi con semplicità alcuni sentimenti e riflessioni perché, conoscendo meglio l’anima del Vescovo, possiamo vivere il nostro Sacerdozio in spirito di accresciuta comunione. Risuonano sullo sfondo le parole del grande Vescovo e martire, Ignazio di Antiochia: “E’ bene che camminiate in accordo con il pensiero del Vescovo. Il vostro collegio dei presbiteri (...) è strettamente unito al Vescovo come le corde alla cetra” (Lettera ai cristiani di Efeso IV).


2. Il primo sentimento che desidero condividere è la gratitudine a Dio per la nostra Chiesa Particolare. Essa, come ho scritto nella Lettera Pastorale (cfr Camminate secondo lo Spirito, 1-2) è un mondo ricco di bontà e di bene; che stima i suoi Sacerdoti e ne apprezza la presenza. E’ un “campo” particolarmente fecondo per la pastorale dei giovani. Ho spesso constatato come essi si rivolgano a voi con semplicità e fiducia, certi di trovare un cuore di padre. Così, a qualunque livello e in ogni ambiente, la presenza e l’operato dei Cappellani trova globale considerazione, apprezzamento e disponibilità.

La Divina Provvidenza ci dona questa grande opportunità pastorale e la Chiesa, attraverso la nostra sacerdotale vicinanza, esprime la sua materna sollecitudine per tanti uomini che si dedicano al loro dovere di sicurezza e di ordine con competenza, semplicità e dedizione fino al sacrificio. Sono aspetti, questi, che noi Sacerdoti possiamo cogliere e testimoniare di persona con sincera ammirazione. Così pure siamo testimoni di come le loro famiglie, che fanno parte della nostra Diocesi, condividono la missione impegnativa dei loro cari; e conosciamo quanto il valore della famiglia - nonostante difficoltà e crisi – sia sentito vivo e centrale. In questa direzione, dobbiamo intensificare la pastorale specifica.

La nostra gratitudine al Signore per la grazia che ci dona di poterci spendere in questo ampio campo, si esprime ogni giorno nella Celebrazione Eucaristica, l’Azione-di- grazie per eccellenza.

3. Il secondo sentimento è per voi, cari Cappellani Militari. Senza illusione o presunzione, mi sembra di conoscervi “da tempo”. L’esperienza insegna che spesso, nei rapporti, l’intensità del cuore supplisce e integra la brevità del tempo. Penso ciascuno al proprio posto di lavoro dove l’obbedienza lo ha inviato. Tutti siamo inviati da un’obbedienza più alta: in questa prospettiva, sappiamo che nella vita sacerdotale non è il “che cosa” o il “dove” che innanzitutto conta, ma il “perché” e il “come”. A ciascuno esprimo la mia stima e la mia gratitudine.

Come nella vita di tutti, anche nella nostra non mancano difficoltà, a volte aridità e incomprensioni. Esse sono di diversa natura e provenienza: ci sono prove che si possono sciogliere e superare, altre che si devono solo portare. Quelle che non derivano da noi stessi, dal nostro mondo interiore o dal nostro carattere, sono le sofferenze che l’apostolo Paolo vive in prima persona nel suo ministero: le vive come segno della necessaria partecipazione alla croce di Cristo e
come modo efficace per generare le anime a Dio. Egli sa bene che non si genera la vita senza dolore. Anche noi lo sappiamo e non dobbiamo dimenticarlo strada facendo. Questa certezza di fede, che si conferma e ravviva guardando al Crocifisso – che deve essere sempre ben visibile nelle nostre chiese e nei nostri alloggi – ci dona la capacità di resistere con fortezza e di guardare avanti con serenità e fiducia.


4. Desidero ora aprirvi il cuore lasciandomi sollecitare dall’incontro delle donne al sepolcro di Cristo, così come i quattro Vangeli lo narrano. Al di là delle questioni esegetiche, i racconti si arricchiscono a vicenda. In quel misterioso e pur luminoso contesto, sgorgano le parole che vorrei fossero come il cuore di questa lettera: “Non abbiate paura (…) Dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete” (Mc 16, 6-7).
Esse sono una missione per le donne: le ripetono agli Apostoli e le ripetono a noi oggi. Risuonano rassicuranti nella mia anima: lasciate che le ripeta io stesso a ciascuno di voi.


5. Sole, alle primissime luci dell’alba, le donne si recano al sepolcro di Gesù. Non è difficile intuirne i sentimenti: il loro cuore è come una tomba chiusa dal peso di un’immensa pietra. Sembra che il sepolcro di Cristo si prolunghi nelle loro anime: se da un lato corrono ansiose per raggiungere in fretta la meta, dall’altro si trascinano sotto l’invisibile peso della pietra tombale che non vorrebbero mai più rivedere. Le guida l’intimo e irrefrenabile desiderio di stare ancora vicini a ciò che rimane del Maestro; che si può vedere e toccare; che dà la sensazione della sua presenza. Ma l’anima è invasa da un acuto dolore e da una sconfinata tristezza, conseguenza della morte di Gesù, ma anche della crudele violenza con cui l’Agnello senza macchia è stato condotto al “macello”.

L’assenza di Gesù provoca in loro smarrimento e vuoto: da quell’abisso sale l’antica e universale domanda: chi sono io? che senso ha il mio vivere? che sarà di me? Incontrando un giorno non lontano Gesù, Maria di Magdala – oppressa da “sette demoni” (cfr Lc 8, 2) – aveva sentito la risposta. Nella verità delle parole del Maestro aveva scoperto la sua libertà. Nel suo sguardo aveva sentito la stima e l’amore di Dio: “Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno della mia stima e io ti amo” (Sl 43). E a lui aveva affidato se stessa, la propria vita.
Ora, di fronte al sepolcro, Maria è ferita da un profondo dolore, ma anche da una acuta delusione: delusione per un mondo infranto, un sogno finito. E, insieme, è trafitta da una struggente nostalgia per un tempo – troppo breve – di speranza e di vita.


6. Anche i discepoli di Cristo – di ieri e di oggi – possono essere ghermiti e attraversati da questi pensieri ed avere l’anima scossa dagli stessi sentimenti. Ognuno, come Maria, deve percorrere la via della purificazione della fede e dell’amore. La fede è luce, ma oscura; è oscurità, ma luminosa. Anche grandi Santi hanno conosciuto la “notte”.
Noi Sacerdoti non siamo esenti: ognuno, secondo il proprio cammino e il disegno di Dio, può avvertire la prova di Maria. A volte è l’esperienza più dolorosa della nostra povertà, della fragilità personale: toccare con mano, forse con umiliazione, lo scarto tra l’amore di Dio, la santità del Sacerdozio ricevuto, e la misura della nostra risposta.
Altre volte, la prova può nascere dalle difficoltà del ministero pastorale. Ci sentiamo come il seminatore generoso della parabola (cfr Mc 4) che sparge il seme del Vangelo senza risparmiarsi e non vede altro che pietre e spine. Penso alla fedeltà della vostra quotidiana presenza là dove la Chiesa vi manda: una presenza che non è solo un “esserci”, ma relazionarsi con tutti, offrire vicinanza e ascolto, disponibilità visibile del proprio servizio. Penso alla fedele celebrazione della Santa Messa a volte con poche presenze – qualche volta “soli” - ; alla fatica di conquistare giorno dopo giorno la fiducia di coloro che vi sono affidati; alla tentazione di assuefarvi alle situazioni e dare tutto per scontato; allo sforzo per ricominciare ogni giorno senza arrendervi; alla prontezza per non perdere nessuna occasione, nessun piccolissimo appiglio per indicare alle anime il volto di Cristo; alla continua fantasia per inventare e tentare nuove vie e iniziative d’ incontro con le persone; alla vostra sofferenza di pastori nel registrare a volte rifiuti e incomprensioni.


7. Al sepolcro, un nuovo dolore attende le donne: la tomba è aperta e vuota. Il corpo esangue di Gesù, ultima reliquia di un mondo nuovo e appena intravisto, è scomparso. In fondo, si accontentavano di poco: poter rimanere alcuni attimi vicine a ciò che rimaneva di lui e prestargli l’estremo tributo di pietà ungendolo con i rituali aromi. Ora, il senso dell’abbandono è completo. Ma il Risorto è vicino!

Consideriamo ora l’incontro con Maria di Magdala: certamente Giovanni (cap 20) trascrive quanto la donna ha raccontato innumerevoli volte. E’ la storia di un incontro che esprime, ma anche travalica, l’esperienza singola, lasciando trasparire il dinamismo di ogni rapporto con il Signore: sia all’inizio della fede come nella sua crescita, sia nel momento della sofferenza come della tentazione.

Colpisce che Maria non riconosca subito il Signore. Anche i due discepoli sulla via di Emmaus non lo riconoscono (cfr Lc 24). A parte altre considerazioni, Maria è talmente chiusa nel suo dolore da non vedere altro: è come “fuori” dalla realtà. E’ così presa dall’assenza del Maestro da non coglierne la presenza.

Può accadere anche a noi: ostacoli, delusioni, progetti, aspirazioni personali, possono diventare talmente ingombranti da possederci e renderci ciechi di fronte alla vicinanza di Cristo. Quando l’uomo si lascia prendere troppo dai suoi problemi e dai suoi calcoli, li assolutizza e si allontana dalla realtà: entra in un mondo solo suo. E lì si chiude. Le anime sagge ci insegnano a saper sorridere di noi stessi.


8. Ma Gesù risorto non lascia Maria sola con se stessa, con il suo dolore che rischia di estraniarla per sempre. Rompe questo isolamento e la interroga: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”.
Come sulla via di Emmaus, Cristo domanda, provoca il dialogo. La logica è la stessa: vuole che l’uomo prenda coscienza chiara dei suoi stati d’animo; li faccia emergere dal profondo dell’anima; li guardi in volto e li chiami per nome; ne colga i motivi a volte nascosti. Ciò è necessario sia per il sentimento della gioia che per quello della sofferenza, del disagio interiore come del malumore: perché sono così triste, insofferente, insoddisfatto?
Maria, dovendo rispondere allo “sconosciuto”, è costretta a dire con chiarezza la ragione più vera e profonda del suo dolore: dicendola a lui, la dice innanzitutto a se stessa e ne vede la portata. Nello stesso tempo, dichiara la sua volontà di coinvolgimento, la sua disponibilità a fare tutto ciò che è possibile per affrontare e vivere in modo costruttivo la situazione: “Se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Era tutto ciò che Maria poteva fare in quel momento: e l’avrebbe fatto con slancio. Quanto è importante per tutti, anche per noi! Nelle situazioni difficili o dolorose, innanzitutto fare tutto ciò che è possibile in concreto, senza attenderci la perfezione impossibile delle cose umane.

9. Solo a questo punto il Risorto irrompe nel suo cuore chiamandola per nome: “Maria”. E gli occhi di lei si aprono: “Maestro!”. In questo istante – lungo quanto il nome – si capovolge l’universo: la tomba dell’anima si spalanca, la tenebra diventa luce, Maria risorge alla vita. Ella vede il volto del Risorto e naufraga in lui.
Non è questo, forse, il dinamismo della fede? La fede è sempre un incontro, un riconoscersi reciproco, un dirsi di “si” l’un l’altro. E’ chiamarsi per nome. Ognuno di noi è stato chiamato per nome: dimenticare questa avvincente realtà, viverla in modo scontato, significa entrare nella “tomba”, così come Maria di Magdala si era segregata sotto la grande pietra del suo tormento.

Dall’eternità Dio ci conosce per nome e ci ha chiamati alla vita. I nostri genitori hanno voluto con amore dei figli, ma non ci hanno scelto. Dio sì! Ci ha chiamati poi alla fede e al Sacerdozio. Perché proprio noi? Gesù, sul monte, ne scelse dodici e l’evangelista ne indica il nome uno per uno (cfr Mc 3, 13-19). Non sceglie in massa o a caso ma personalmente, ognuno con il proprio volto, con una storia irripetibile, un progetto particolare. Con ciascuno di noi vuol fare qualcosa di unico per il bene di tutti. Ci chiama per nome nel suo Corpo che è la Chiesa. L’obbedienza alla Chiesa è la risposta all’appello di Cristo: come Maria, risponde con slancio di fede e d’amore: “Maestro!”. Nella Chiesa siamo chiamati alla fraternità che si fonda su Cristo che ci ha redenti, ci ha resi figli dello stesso Padre e, noi Sacerdoti, membri dell’unico Presbiterio. La fraternità sacerdotale è una chiamata precisa e ineludibile nonostante le sensibilità diverse: è un criterio certo e necessario della nostra radicale risposta a Cristo.
Ancora, ognuno di noi è chiamato nella sua vita di preghiera. Come Sacerdoti, sappiamo che la “vita di preghiera” non si esaurisce nelle “preghiere” a cui siamo per altro tenuti. La meditazione della Parola di Dio, la Liturgia delle Ore, il santo Rosario, la visita al SS. Sacramento, sono espressioni e momenti necessari e vitali di quella vita-di-preghiera che è un costante, consapevole ed esplicito riferimento a Cristo vivo e palpitante, vicino a noi come a Maria presso il sepolcro vuoto. Ciò significa, fra l’altro, considerare le vicende liete e tristi, personali e comunitarie, “sub lumine aeternitatis”, come insegnano i Maestri dello spirito: cioè nella luce di Cristo, con i suoi occhi, nella logica delle Beatitudini e della Pasqua di morte e risurrezione.

Soprattutto, ogni giorno il Signore ci chiama per nome nella Celebrazione Eucaristica, luogo sommo dell’incontro. Lì, Cristo non solo pronuncia il nostro nome con incomparabile predilezione, ma – a differenza di Maria – si consegna a noi, alle nostre mani consacrate. Ci chiama ad agire “in persona Christi”! Chiede di essere ospitato nella dimora della nostra anima per poterci lui stesso ospitare nel suo ineffabile abbraccio. Così come Maria va a visitare il corpo del Signore e si trova visitata da lui: lo chiama con la voce del cuore e si sente chiamata; lo cerca con struggente nostalgia e si scopre cercata.


10. Il dinamismo della fede non è concluso. Matteo racconta che le donne, “avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono” (Mt 28, 9). Anche Maria, nel vangelo di Giovanni, si slancia verso il Signore, ma l’evangelista riporta una particolare reazione di Gesù: “Non mi trattenere”.
Come non pensare alla richiesta spontanea e appassionata di Pietro sul Tabor davanti a Cristo trasfigurato? Il gaudio e la beatitudine erano tali da chiedere di “fermare” per sempre la bellezza sublime di quel momento: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Lc 9, 33). La risposta di Gesù non è stata a parole, ma con il repentino cambio di situazione: “Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse” (Lc 9, 34).

Nei due episodi, pur nella diversità dei contesti e dei messaggi, vi è un elemento comune: il desiderio dell’uomo di fissare per sempre la bellezza e la felicità; di “fermare” il tempo nella sublimità raggiunta; di “restare” davanti alla gloria di Dio e respirare la sua luce. Ma se questo è il comprensibile e irrefrenabile anelito dell’uomo, il suo essere pellegrino della fede gli impedisce di fermarsi e gli chiede di continuare il cammino fino a quando, superato il tempo, entrerà in Cielo.

* Così è anche per noi. In Gesù, Dio è venuto incontro all’uomo, si è fatto disponibile; ma l’uomo non può disporre delle manifestazioni di Dio. Non possiamo fissare i momenti in cui, nella vita spirituale, egli lascia intravedere il suo volto e noi “tocchiamo il cielo”. Solo lui decide i tempi e i modi. Ci chiede di crescere in una fede adulta che sa vederlo e incontrarlo non solo nei momenti desiderati di luce e di consolazione, ma anche in quelli temuti di oscurità e di croce. Credendo che tutto è grazia perché egli è sempre presente, anche quando è dolorosamente nascosto: “Veramente tu sei un Dio nascosto” (Is 45, 15).

* Per noi Sacerdoti, poi, si aggiunge l’immeritata vocazione di essere segno sacramentale di Gesù, Buon Pastore. Ciò esige la libertà e l’ascesi di ripetere ogni giorno il “sì” definitivo pronunciato davanti a Dio e alla Chiesa nel giorno della sacra Ordinazione. Prostrati sul pavimento, quasi uno con esso, eravamo consapevoli che la potenza dello Spirito stava per compiere in noi qualcosa di straordinariamente grande, di unico, di infinitamente superiore alle nostre capacità e meriti. Eravamo coscienti di questo; a questo ci eravamo preparati negli anni del Seminario; questo volevamo con tutto noi stessi.
Ma altresì eravamo consapevoli delle conseguenze, della messa in gioco di tutta la nostra libertà, della vita, di ogni attimo e respiro. Tutto di noi stava per ricevere il sigillo a fuoco dello Spirito: da quel momento più nulla di noi – intelligenza e cuore, corpo e anima, tempo – sarebbe stato solo “nostro”; nulla sarebbe “uscito” da quel marchio divino. Tutto avrebbe portato l’impronta indelebile del Buon Pastore, del suo volto, del suo quotidiano dare la vita per le anime. Era il nostro destino: per sempre! Eravamo coscienti di questo e, negli anni, tale consapevolezza si è confermata e arricchita.

In questa luce, non ci devono legare né le delusioni pastorali né i successi: tutto è grazia nella libertà dello spirito, perché Dio è sempre più grande. Non dobbiamo dimenticare di essere mendicanti di Infinito, viandanti verso il Cielo, fatti per la vita eterna. Quando il fine ultimo del nostro essere si offusca, subentrano altre prospettive, ne conseguono preoccupazioni inutili, attaccamenti troppo umani, insoddisfazioni sorde che possono condurre lontano.


11. L’episodio si avvia alla conclusione e, in un certo senso, al suo culmine. Nei quattro Vangeli, seppure in modi diversi, si giunge al medesimo messaggio: alle donne l’angelo non solo annunzia la risurrezione, ma affida un mandato: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. E’ risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete” (Mc 16, 6-7).
Nel racconto di Marco, si legge che le donne fuggirono spaventate e si guardarono bene dal parlare: “non dissero niente a nessuno, perché avevano paura” (Mc 16, 8). Maria di Magdala, invece, raccontò quanto aveva visto sfidando l’incredulità dei discepoli.

Questo lieto annunzio Maria lo ripete anche a noi, carissimi Sacerdoti. Quante volte, nella mia esperienza di Sacerdote e di Vescovo, ho toccato la verità di queste parole! Anche in questo primo anno di ministero nella nostra Chiesa, innumerevoli volte ho visto che il Signore ci precede in Galilea. Ognuno ha la sua Galilea, la situazione pastorale che il Vescovo gli ha affidato. Perché il Signore si lasci vedere, è essenziale che la Galilea non la scegliamo noi, ma l’accogliamo come un dono: anche quando si presenta particolarmente difficile.
Nonostante la diversità dei compiti, dei luoghi e delle forme di pastorale, dobbiamo ricordare che la Galilea dove il Risorto ci precede e vuole incontrarci è fatta di anime. E’ questo il luogo dove il Signore ci previene con la potenza della sua grazia. Solo questo! Molte volte restiamo sorpresi incontrando tesori di bontà, di pulizia morale, di eroismo semplice, in situazioni che sembrerebbero lontane o impossibili. E invece lo Spirito del Risorto, attraverso vie misteriose, ha lavorato nella profondità dei cuori, ha suscitato pensieri alti, ha sostenuto sforzi intrepidi che ci lasciano sconcertati e ci fanno cadere in ginocchio per adorare il Signore ricco di misericordia. Penso alla fedeltà coniugale, all’onestà nel lavoro, al superamento dei rancori fino al perdono delle offese, alla faticosa educazione dei figli, a situazioni di sofferenza fisica o morale portate con ammirevole serenità e forza, alla quotidiana cura dei malati e degli anziani, alla solidarietà spicciola così diffusa e silenziosa, alla preghiera personale, alla testimonianza cristiana fino a rischio della propria vita…
Anche all’estero, nelle missioni di pace, si scoprono tesori di bontà, di religiosità, di fede sopravvissuta a tutto. Si tocca con mano che la carità di anime umili sviluppa una fantasia che commuove. Si vede che il Vangelo infonde una vitalità che nessuna persecuzione riesce a piegare: e quando sembra che tutto sia spento, sotto la cenere si riaccende la fiamma: “Molti hanno tentato di sopprimere il nome del Crocifisso – scriveva già san Giovanni Crisostomo – ma hanno ottenuto l’ effetto contrario. Questo nome rifiorì sempre di più e si sviluppò con progresso crescente” (Om. 4).

12. La domanda, in queste situazioni, è spontanea: da dove viene tanta sapienza e tanta virtù in terreni che sembrano incolti e a volte devastati? Non di rado, se ci è dato di entrare nei cuori, scopriamo che nel fondo dell’anima è viva la figura dei genitori, del Sacerdote, di una catechista, il ricordo della processione del paese, una frase sentita un giorno, una parola del Vangelo, la tenacia di un Papa ammalato e intrepido, l’ esempio buono di chi nemmeno si accorgeva di essere osservato, un’immagine sacra che ha attirato l’attenzione e che è custodita gelosamente, una melodia, una liturgia ben celebrata che ha incantato l’anima, un momento di solitudine o uno spettacolo avvincente della natura…Come è possibile elencare tutte le vie della grazia, che con mano invisibile accarezza le anime e le dispone al Signore?
Quante volte Dio ci fa incontrare improvvisamente un “fiore” là dove tutto ci sembrava “deserto”! “Là mi vedranno”! E’ opera sua per dirci di non cedere mai allo scoraggiamento, di non pretendere di catalogare ogni cosa, di vedere i risultati delle nostre fatiche pastorali: tutti e sempre. Ci chiede di lavorare con grande generosità e impegno, senza risparmiarci; ma poi di lasciare il raccolto a lui, grati di aver potuto seminare. Ed egli, nella sua misericordia verso di noi suoi Ministri, ci fa anche vedere qualche risultato per sostenere il nostro lavoro e incoraggiare la nostra debolezza. Per ricordarci che nessun seme buono va perduto: tutto, prima o dopo, riaffiora, fiorisce e porta frutto: “uno semina e uno miete” (Gv 4,37). Sì, egli ci precede nella Galilea delle anime e lì ci attende per farsi vedere: per sorriderci, confermare la fiducia e incoraggiare il nostro impegno: per essere uomini di speranza. Dobbiamo solo tenere aperti gli occhi lavorando con gioia e dedizione.

13. Questa certezza di fede ci rassicura ma non ci lascia “tranquilli”. Ben lontani dal cedere all’inerzia spirituale e a pigrizie pastorali, sapere che il Signore “ci precede” nelle anime ci stimola a lavorare di più, con rinnovata forza di convinzione e accresciuto slancio di impegno. L’assicurazione che nulla del bene compiuto va disperso, perché raccolto e fecondato dalle mani invisibili dello Spirito, accresce il nostro entusiasmo e ci dona un supplemento di coraggio, di attenzione, di energia.

Nel nostro ministero, cari Confratelli, di solito non sono possibili grandi e organiche programmazioni: anche per questo non è necessaria una complessa e articolata organizzazione pastorale della Curia. Ma questo ci richiama fortemente all’essenziale del nostro apostolato: la vicinanza costante, disponibile, propositiva alla gente. Sì, come abbiamo detto altre volte, la nostra è la tipica pastorale “da persona a persona”, è “pastorale della presenza”: una presenza umile, vivace, intelligente, cordiale. In una parola, appassionata!
Una presenza che si fa condivisione sacerdotale della gioia e del dolore. La preparazione che fate ai sacramenti non è forse un modo concreto per condividere momenti decisivi della vita degli uomini? Momenti che chiamano in causa la riscoperta della fede, la verità di se stessi, responsabilità più grandi; ma anche possono essere occasione di domande, di trepidazioni e di timori! La famiglia è considerata un grande valore nel nostro ambiente; ma i problemi esistono. Voi siete testimoni di preoccupazioni e drammi che vi vedono consiglieri di comprensione, perdono, riconciliazione. E poi, quanto la vostra presenza è richiesta e apprezzata quando il dolore bussa alla porta dell’esistenza! In Italia e all’estero. Tutti siamo esposti e inermi perché creature: non ci sono responsabilità, gradi, età che ci rendano immuni davanti al dolore e ai pericoli. La vostra condivisione discreta, pronta e fedele, entra nei cuori e resta per sempre; è decisiva perché l’uomo possa vedere il volto di Gesù Buon Pastore e cogliere la maternità della Chiesa.

L’annuncio pasquale – “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete” - ci invita a cercare con fiducia “ le nostre pecorelle” e a conoscerle per nome, come il Buon Pastore. Siamo incoraggiati a dare la vita per loro: la disponibilità, l’ascolto paziente, un gesto di paternità sacerdotale, una parola di speranza perché fatta di Cielo, quel Cielo che il Risorto ha spalancato e che tutti desiderano anche senza saperlo.


14. In questo contesto, le piccole cose assumono un’importanza speciale; a volte – come l’esperienza insegna - possono essere decisive per un’anima. Quante volte, durante le celebrazioni liturgiche nelle nostre Comunità, sono rimasto colpito dalla cura di ogni particolare: dalla tenuta del tabernacolo alla pulizia della chiesa; dal candore delle tovaglie al decoro dei vasi sacri e dei paramenti; dalla scelta dei fiori – mai di plastica salvo in casi particolari come in certe zone dell’estero – all’uso suggestivo dell’incenso; dal coro dei militari al buon impiego di appropriati strumenti per il canto e la musica sacra; dal servizio dei ministranti opportunamente preparati ai lettori; dalle intonate intenzioni di preghiera alla sempre lodevole processione offertoriale; dalla cura dell’immagine della Santa Vergine e dei Santi alle parole di saluto all’inizio della Celebrazione.
Sempre pensavo come quell’ “insieme”, frutto di sacrificio vostro e di altri, fosse un grande annuncio di Gesù Risorto, una catechesi vissuta, un’esperienza che lasciava il segno indelebile nei partecipanti. Attraverso il linguaggio ricco della Liturgia, che coinvolge tutti i sensi dell’uomo, l’anima percepisce l’Invisibile, se ne sente avvolta misteriosamente, ne resta segnata e nutrita. Tutto diventa segno e annuncio del Signore e della sua bellezza che consola e salva: gesti e parole, colori e suoni, profumi e silenzi.

Così, ho potuto spesso constatare l’utilizzo di semplici strumenti o segni che aiutano la fede: l’edizione tascabile del Vangelo, sintesi del Catechismo, piccoli testi o pagelline delle preghiere del cristiano, dell’esame di coscienza, del Rosario, medaglie della Madonna o dei Santi, crocifissi sia da tenere personalmente sia da esporre negli ambienti – cosa da diffondere in forma sempre più ampia -. Sono mezzi concreti ed apprezzati che, nelle mani di Dio, portano frutto anche grande. Nulla di ciò che appare “piccolo” e semplice deve essere trascurato o peggio deriso - né delle cose né delle circostanze – sapendo che nulla è piccolo di ciò che è fatto con amore e per il bene delle anime.
Su queste direttrici pastorali vi esorto a continuare con rinnovata convinzione, fiducia e generosa inventiva.

15. I motivi per venir meno alla fiducia non mancano: i segni più evidenti del nostro tempo non sono incoraggianti e ci fanno interrogare a volte sulla incisività dell’annuncio evangelico, sulla capacità di indirizzare in senso cristiano la cultura contemporanea. Il secolarismo, con l’appoggio del consumismo, sembra vincente e devastante sui singoli e sulla società insidiandone i valori portanti, come la dignità della vita umana dal concepimento al suo naturale tramonto, la bellezza e la serietà dell’amore, la santità del matrimonio, l’unità e la fecondità della famiglia.
Ma la nostra esperienza di Pastori, che hanno l’incomparabile grazia di accedere nell’intimo delle anime, attesta che il bene – quello profondo – è immensamente più grande del male. Parafrasando un noto principio di saggezza popolare, dobbiamo dire ad alta voce che, se nella foresta gli alberi che cadono sono molti e fanno rumore, non dobbiamo dimenticare che la foresta che cresce silenziosamente è sterminata! E’ questa bontà nascosta, silenziosa e diffusa che, insieme all’amore di Dio, fa crescere l’umanità e scrive la storia più vera di questo magnifico e drammatico mondo.

Cari Confratelli nel Sacerdozio, accogliete questa Lettera con benevolenza: l’ affido alla vostra sensibilità di credenti e di Pastori. Attraverso il filo evangelico dell’incontro delle donne con il Risorto, avete certamente colto anche il mio ministero episcopale in questo primo anno tra voi e con voi. Ricordiamo che il Signore non solo ci accompagna, ma anche ci precede!
Vi saluto con le parole dell’Apostolo Paolo:
“Fratelli, state lieti, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi” (2 Cor 13, 11).

Vi benedico con affetto.


Roma 4 ottobre 2004
San Francesco d’Assisi
Patrono d’Italia

Angelo Bagnasco
Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia