Indice
Introduzione
I. La scelta del tema
II. Verso il “centro"
III. La vita spirituale
IV. Le sorgenti della vita spirituale
V. Nel grembo della Chiesa
VI. Maria, Maestra di vita spirituale

Bagnasco

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LE SORGENTI DELLA VITA SPIRITUALE  

La Parola di Dio

13. “Tu hai parole di vita eterna” risponde Pietro a Gesù che chiede se anche loro, gli apostoli, volevano abbandonarlo come la folla (Giovanni 6, 67).
Nel grande mercato delle parole, l’uomo moderno cerca la Parola come il mercante cerca la perla preziosa. La Parola di cui il mondo ha bisogno riguarda il senso ultimo di questo straordinario e fragile universo, della nostra tormentata storia. L’uomo cerca la luce sulla morte e sul dolore, specialmente quando bussa la porta di casa. E’ di questa parola che ognuno ha desiderio: le altre hanno significato se in qualche misura servono a questa parola decisiva.

Immergersi nelle Scritture Sante, affidarsi con semplicità e costanza alla Parola del Signore, è la prima sorgente della vita spirituale. Dal Vangelo infatti emerge il volto di Gesù: le sue parole, i silenzi, i gesti, i sentimenti, il suo rapporto con il Padre. A questa sorgente cristallina le anime si sono sempre dissetate prendendo vigore per vivere, come ricorda il Concilio: “La Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del Pane della vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo” (Dei Verbum 21). E il grande Vescovo e martire del secondo secolo, sant’Ignazio d’Antiochia, affermava in modo incisivo: “Mi affido al Vangelo come alla carne di Cristo”! Nella linea di questa grande tradizione, i Vescovi italiani esortano tutti a fare della Bibbia il pane quotidiano: “Dovremmo nutrirci della Parola di Dio bramandola come il bambino cerca il latte di sua madre: per la vitalità della Chiesa, questa è un’esperienza essenziale” (C.E.I. Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 47).

Accostare ogni giorno un brano evangelico richiede un po’ di fede e di buona volontà. E’ come esporsi alla luce per diventare luminosi, è nutrire l’anima, è mettersi alla scuola di Gesù, il Figlio eterno di Dio. E’ ciò che vi chiedo di fare, cari fratelli e sorelle. Attraverso le mani invisibili dello Spirito Santo, la Parola modella lo spirito e gli imprime i sentimenti di Cristo. Il Vangelo, “frequentato” ogni giorno, diventerà la vostra casa accogliente anche se esso è impegnativo perché mette a nudo l’ anima. Lasciatevi incoraggiare dalle parole del salmo: “Sono più saggio di tutti i miei maestri perché medito i tuoi insegnamenti. Ho più senno degli anziani perché osservo i tuoi precetti” (salmo 118).

14. Per accostare con verità e frutto le Sacre Scritture è necessario credere che esse “contengono la Parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente Parola di Dio” (Dei Verbum 24). Al riguardo è avvincente la testimonianza dell’agnostico André Gide: “Non perché mi sia stato detto che tu eri il Figlio di Dio ascolto la tua parola; ma la tua parola è bella al di sopra di ogni parola umana e da ciò riconosco che sei il Figlio di Dio”!
Inoltre, occorre ricordare che Gesù continua ad essere con noi anche oggi per spiegarci le Scritture: è Lui, con il suo Spirito e nella sua Chiesa, a spiegare la sua parola. Ecco perché la Bibbia va sempre letta nella Chiesa e con la Chiesa, per non correre il rischio di dare interpretazioni puramente soggettive e distorte; per lasciarlo parlare senza “aggiustamenti”; per non “ metterlo alla pari con la moda del giorno, come se Dio non fosse alla moda di tutti i giorni, come se si potesse ritoccare Dio”, come scriveva una ventenne francese, Madeleine Delbrel, che si convertì al Cattolicesimo nel 1924.
Una vita spirituale solida, dunque, richiede l’attenzione alla Tradizione viva e al Magistero autentico: la Chiesa è Madre e Maestra, e ha ricevuto dal suo Signore il compito di custodire intatta la fede apostolica per il bene dei credenti. Ecco perché l’ascolto filiale e docile della parola del Papa e dei Vescovi fa parte della crescita spirituale di ogni credente. Ascoltiamo ancora il Concilio Vaticano II: “L’ufficio di interpretare la Parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo” (id. 10).
In termini di grande concretezza, il Santo Padre esorta le comunità cristiane – e in primo luogo i Sacri Ministri – perché l’Anno dell’Eucaristia costituisca un’importante occasione per una verifica sull’ascolto e sulla predicazione della Parola di Dio nella Santa Messa: “Non basta infatti che i brani biblici siano proclamati in una lingua comprensibile, se la proclamazione non avviene con quella cura, quella preparazione previa, quell’ascolto devoto, quel silenzio meditativo, che sono necessari perché la Parola di Dio tocchi la vita e la illumini” (Mane nobiscum Domine, 13).

Inoltre, perché la fede diventi adulta, non si può prescindere dalla conoscenza progressiva di tutte le verità della fede cristiana e cattolica, altrimenti diventa un sentimento senza contenuti. E’ qui da ricordare la grande ignoranza che dilaga a proposito delle verità della nostra religione: purtroppo anche delle più basilari. A tale proposito raccomando il Catechismo della Chiesa Cattolica, autorevole e completa sintesi dottrinale della fede.

In questo contesto, è opportuno ricordare che la crescita della fede si misura anche con la storia, cioè con la testimonianza di fronte al mondo. Il Signore Gesù ha dato ai discepoli il compito di essere “luce e sale della terra” (cfr Matteo 5): si tratta della responsabilità di ogni fedele laico di animare le realtà terrene con i valori cristiani, consapevole che una cultura ispirata al Vangelo è un bene per tutti. La fede non può mai essere confinata nella sfera del privato: coinvolge l’intera persona e quindi anche la sua dimensione pubblica e sociale. I grandi valori della verità, della giustizia, dell’amore, della libertà – pilastri di un mondo prospero e pacificato – sono valori evangelici, desiderati e perseguiti da ogni uomo di buon senso e di buona volontà.
Per rispondere a questo delicato e irrinunciabile compito, dobbiamo ricordare la necessità e il dovere di conoscere e mettere in pratica il Magistero sociale della Chiesa. Il “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa” – di recente pubblicazione – deve essere, per ogni cattolico che intende vivere una fede adulta e incarnata, un punto di sicuro riferimento e di concreto orientamento.

15. Anche le parole degli uomini possono aiutare: se non sono chiacchiere. Si può parlare senza dire; peggio ancora è seminare idee false e principi immorali. Tra le molte parole che dilagano è necessario discernere per individuare quelle dense di significato, di saggezza; che aiutano a camminare nelle vie della verità e del mistero; che illuminano per conoscere se stessi. Sappiamo che la parola umana è veicolo di verità e di comunicazione; ma può diventare strumento di menzogna, di raggiro, di violenza.
Gli uomini che, dall’antichità ad oggi, hanno pensato e scritto con intelligenza e onestà interiore, sono come delle luci per l’umanità. Meritano di essere considerati con attenzione e gratitudine. Bisogna distinguere tra i buoni e i cattivi maestri: gli uni umilmente indicano delle vie per introdurci al mistero della realtà. Gli altri con sufficienza, a volte arrogante e a volte melliflua, demoliscono i valori in nome di una concezione di libertà impazzita perché sradicata dalla verità delle cose. Tentano di insinuare e di “far prevalere una antropologia senza Dio e senza Cristo” (Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa, 9), chiusa allo spirito e alla Trascendenza. Quando ciò avviene, la libertà perde se stessa e si rivolta contro l’uomo: basta pensare alle varie idee circa la vita, la bioetica, la coppia, la famiglia, il matrimonio. Attaccare questi “santuari” dell’uomo significa non solo andare contro Dio ma anche contro l’uomo.
Solo aderendo alla verità la persona vive sulle ali della libertà. La vera libertà è scegliere il bene, perché solo il bene realizza l’uomo: e il bene ce lo indica Dio che è il Sommo Bene.

 

La preghiera

16. Come sulla via di Emmaus, non basta essere ammaestrati dalla Parola del Signore: perché l’incontro con Lui si compia è necessario entrare nel mistero della preghiera. Mentre le Sacre Scritture ci svelano il mistero di Cristo, la preghiera personale esprime il dialogo con Lui, e i sacramenti – in modo particolare la divina Eucaristia – ci introducono tra le braccia del Risorto.
Emerge, dunque, un altro aspetto fondamentale dell’itinerario spirituale: l’unità tra Parola, preghiera e Sacramenti. L’ascolto della Parola scritta, infatti, tende per suo intimo dinamismo all’incontro con la Parola fatta carne, Cristo.
E’ ancora il Santo Padre che ci incoraggia. Egli constata “ un rinnovato bisogno di preghiera” e ci ricorda che “la grande tradizione mistica della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente, può dire molto a tale proposito. Essa mostra come la preghiera possa progredire, quale vero e proprio dialogo d’amore, fino a rendere la persona umana totalmente posseduta dall’Amato divino (…) Si tratta di un cammino interamente sostenuto dalla grazia, che chiede tuttavia forte impegno spirituale e conosce anche dolorose purificazioni (la “notte oscura”), ma approda, in diverse forme possibili, all’indicibile gioia vissuta dai mistici come unione sponsale” (Novo Millennio Ineunte, 33).

17. Il cammino di vita spirituale richiede ogni giorno un piccolo tempo dedicato alla preghiera personale: potrà essere all’inizio della giornata o al suo termine, da soli o con altri, in casa o in chiesa davanti al Santissimo Sacramento; con un brano del Vangelo, con i salmi o con le tradizionali preghiere del cristiano (il Padre nostro, l’Ave Maria, il Ti adoro, l’Angelo di Dio, l’Eterno riposo…), o con il Rosario che è il Vangelo meditato e pregato con la Santa Vergine…Nessuno deve sentirsi incapace o escluso! Nessuno deve pensare che è troppo difficile o impossibile! La preghiera, ci insegnano i Santi, è semplice: “Per me la preghiera è uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia” (santa Teresa di Gesù Bambino, Manoscritti autobiografici, C 25r.). E ancora: “La preghiera è l’elevazione dell’anima a Dio o la domanda a Dio di beni convenienti” (san Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 3,24). Uno sguardo al crocifisso, al tabernacolo della cappella, all’immagine della Madonna, un semplice grazie, un’ invocazione di aiuto nella difficoltà, un’umile richiesta di perdono, una riflessione su una pagina di Vangelo…tutto è preghiera gradita a Dio. Ed è possibile a tutti.
Con intima gioia di pastore ho quasi sempre rilevato l’attenzione e la cura con cui sono tenuti, nelle varie realtà militari, i luoghi di culto e di devozione. Non di rado, anche all’esterno delle Cappelle, vengono costruite dai militari stessi, con generosità e sacrificio, edicole alla Madonna o ai Santi. E’ ciò che constato commosso anche all’estero, nei luoghi più lontani e impervi. Il passaggio giornaliero davanti a questi spazi religiosi è per tutti un richiamo e un invito, per molti l’occasione di preghiera per sé e per i propri cari.

18. Vorrei aggiungere una certezza di fede: non dobbiamo lasciarci impressionare dalla semplicità e a volte dalla povertà della nostra preghiera. La cosa più importante e decisiva è credere che attraverso questi momenti di orazione, piccoli ma quotidiani, lo Spirito Santo forma la nostra anima e la configura al volto di Gesù.
Quando il dolore, il bisogno, le difficoltà bussano alla nostra porta, la preghiera sgorga più facile e immediata. Nel mio ministero, di Sacerdote prima e poi di Vescovo, molte volte ho ascoltato l’obiezione che la preghiera fatta in stato di necessità non è autentica perché “interessata”!
E’ un’obiezione ingiusta. Dimentica l’esempio di Cristo che mai, nella sua vita terrena, ha biasimato la preghiera dei malati e dei sofferenti: di coloro che si rivolgevano a lui sulla spinta dell’afflizione. Senza dire che Egli stesso, nell’orto degli Ulivi, in stato di sanguinosa agonia di fronte alla passione imminente, ha pregato di allontanare il calice della sofferenza e della morte: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!” (Luca 22, 42).

L’esperienza della difficoltà e della debolezza riconduce l’uomo alla sua verità: la verità di non essere creatore ma creatura, non padrone della vita ma beneficiario e quindi umile custode. Troppo spesso oggi si rischia una specie di “delirio di onnipotenza”, dimenticando che noi esistiamo perché “dipendiamo” da Dio: “dimenticando – come scrive il Papa – che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo. L’aver dimenticato Dio ha portato ad abbandonare l’uomo” (Ecclesia in Europa 9). Il bisogno ci ricorda, anzi ci fa toccare con mano, questa realtà: per questo l’anima ritrova facilmente la via della preghiera, che esprime umilmente il rapporto vitale con Dio, Creatore e Padre.
Certamente, è auspicabile e doveroso che la nostra preghiera vada oltre il momento della difficoltà e percorra ogni istante, lieto o triste, della nostra esistenza. Così come, sull’esempio di Gesù, le nostre richieste devono essere sempre ispirate al totale e fiducioso abbandono alla divina Provvidenza, le cui vie non sono sempre le nostre: “ Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (id.).

19. Ma la preghiera delle preghiere, il gesto dei gesti, è la santa Messa, il Sacrificio divino, “fonte e apice di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium 11): “nella Santissima Eucaristia, infatti, è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua” (Presbyterorum ordinis 5).
Nella partecipazione alla santa Messa offriamo al Padre, insieme al Sacrificio di Cristo, le pene e le gioie della vita, le difficoltà e le speranze, perché tutto acquisti valore per il tempo e per l’eternità. Gesù ci ha lasciato il memoriale del Sacrificio della Croce perché la nostra vita spirituale potesse attingere luce e forza, e così imparare ad amare come Lui ama ciascuno di noi. L’apostolo Paolo afferma con inesausto stupore: “…mi ha amato e ha dato se stesso per me…!” (Galati 2,20). Ognuno applichi a sé queste parole! Sentirà sua l’affermazione di san Giovanni Crisostomo: “Niente spinge tanto all’amore chi è amato, quanto il sapere che l’amante desidera ardentemente di essere corrisposto!” (Omelia sulla seconda lettera ai Corinzi). La divina Eucaristia non è forse Gesù stesso che nel pane consacrato rende visibile il suo ardente desiderio di essere amato dall’uomo? Lì Dio è con noi nella sua reale presenza: si fa pane di vita eterna, sorgente della comunione fraterna. Egli non ha bisogno di noi, mentre noi abbiamo bisogno di Lui: nel presente e nell’eternità futura.

Comprendiamo che non si può camminare nella via dello spirito senza partecipare il più possibile alla Santa Messa, a cominciare dalla domenica, il Giorno del Signore, in cui per tutti i cristiani esiste un gioioso dovere.

20. L’Anno dell’Eucaristia appena iniziato ribadisce la centralità della divina Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana. Dopo averlo annunciato nella Solennità del Corpus Domini (10 giugno 2004), il Papa lo ha ricordato nel Messaggio per la XX Giornata Mondiale della Gioventù (Colonia agosto 2005), che ha come tema l’avvincente figura dei Magi (“Siamo venuti per adorarlo”): “Ripercorrendo con fede l’itinerario del Redentore dalla povertà del Presepio all’abbandono della Croce, comprendiamo meglio il mistero del suo amore che redime l’umanità. Il Bambino, adagiato da Maria nella mangiatoia, è l’Uomo-Dio che vedremo inchiodato alla Croce. Lo stesso Redentore è presente nel sacramento dell’Eucaristia. Nella stalla di Betlemme si lasciò adorare, sotto le povere apparenze di un neonato, da Maria, da Giuseppe e dai pastori; nell’Ostia consacrata lo adoriamo sacramentalmente presente in corpo, sangue, anima e divinità, e a noi si offre come cibo di vita eterna. La santa Messa diviene allora il vero appuntamento d’amore con Colui cha ha dato tutto se stesso per noi. Non esitate, cari giovani, a rispondergli quando vi invita ‘al banchetto di nozze dell’Agnello’ (cfr Ap 19,9). Ascoltatelo, preparatevi in modo adeguato e accostatevi al Sacramento dell’Altare, specialmente in quest’Anno dell’Eucaristia (ottobre 2004 – 2005) che ho voluto indire per tutta la Chiesa” (Messaggio per la XX Giornata Mondiale della Gioventù, 3). In questa prospettiva, la Chiesa Italiana celebrerà il Congresso Eucaristico Nazionale al quale parteciperà anche una rappresentanza della nostra Diocesi (Bari, 21–29 maggio 2005).

Nell’ultima Lettera Apostolica, il Santo Padre non chiede “che si facciano cose straordinarie, ma che tutte le iniziative siano improntate a profonda interiorità. Se il frutto di questo Anno fosse anche soltanto quello di ravvivare in tutte le comunità cristiane la celebrazione della Messa domenicale e di incrementare l’adorazione eucaristica fuori della Messa, questo Anno di grazia avrebbe conseguito un risultato significativo” (Mane nobiscum Domine, 29). Siamo tutti invitati dunque, per la nostra vita spirituale come per quella delle nostre comunità, a crescere nell’amore all’ Eucaristia non solo con la regolare partecipazione alla Messa festiva, ma anche con la visita individuale al Santissimo Sacramento, con la pratica della “Comunione Spirituale” quotidiana e, almeno una volta nella settimana, con l’adorazione personale e comunitaria davanti al Santissimo esposto. Anche la tradizionale processione del Corpus Domini sia celebrata, ove è possibile, con particolare cura e solennità.

21. E che dire del sacramento della Riconciliazione o del perdono? “Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Corinti 6,11). Il Santo Padre ricorda che “Gesù dona agli Apostoli il potere di riconciliare con Dio e con la Chiesa i peccatori pentiti: ‘Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete , resteranno non rimessi’ (Gv 20, 22-23) (…) La confessione individuale e integra e l’assoluzione costituiscono l’unico modo ordinario con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa” (Lettera Apostolica Misericordia Dei).
Siamo tutti peccatori, bisognosi della misericordia e del perdono di Dio. Vivere da cristiani è avvincente ma arduo, significa spesso andare contro corrente, anche contro noi stessi: non di rado si è incoerenti. Il Signore Gesù, nella confessione sacramentale, ci fa scoprire e gustare il suo cuore compassionevole e ci riconcilia pienamente a sé (grazia santificante). Ci dona anche una grazia tutta particolare per riprendere il cammino della vita spirituale con fiducia e vigore (grazia sacramentale).

Per questi motivi esorto tutti ad accostarsi frequentemente alla confessione con umiltà e fede. Come non essere presi da intima commozione ripensando al padre misericordioso della parabola evangelica (cfr Luca 15), che ogni giorno scruta l’orizzonte per scorgere il ritorno del figlio dissoluto, da lontano ne riconosce la figura, gli corre incontro e lo avvolge con il suo abbraccio di perdono e di festa?
Alla luce di questo incontro che rigenera, comprendiamo e restiamo avvinti dalle parole di sant’Ambrogio: “Non mi glorierò perché sono giusto, ma mi glorierò perché sono redento. Non mi glorierò perché sono vuoto di peccati, ma perché i peccati mi sono rimessi. Non mi glorierò perché sono stato d’aiuto (…) ma perché il sangue di Cristo è stato versato per me” (De Jacob I, 6, 21).
Un cammino spirituale serio non può prescindere dalla Confessione frequente e ben preparata attraverso l’esame di coscienza, il dolore dei propri peccati, e il proposito sincero di migliorarci con la grazia di Dio.

La carità

22. “Uomo, dice il Signore, considera che io sono stato il primo ad amarti. Tu non eri ancora al mondo…e io già ti amavo. Da che sono Dio, io ti amo!” (sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Pratica di amare Gesù Cristo). La carità cristiana, senza la quale non esiste vita spirituale, ha questa origine: “In questo si è manifestato l’amore: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” ( prima Lettera di Giovanni 4, 9–10).
La carità, altra sorgente della vita spirituale, si presenta sotto un triplice profilo.


Risposta d’amore

23. Camminare nella vita spirituale significa lasciarsi amare da Gesù. Si dice che il problema più grave oggi è la fede: ed è vero. Come ho già accennato, i cristiani devono essere attenti a non confondere la “fede” con la “religiosità”. Questa, infatti, esprime il bisogno umano verso la trascendenza, indica l’intuito di una qualche apertura verso il divino: ma l’esito è spesso una spiritualità vaga, astratta, cosmica, non esente da superstizione, senza un reale impegno con Dio che in Cristo si è rivelato “persona”, “volto”, “parola”.
Dio non è, dunque, un’ Entità, un’Energia cosmica, ma è un “Tu”, è il Padre che si coinvolge con la vita dei suoi figli fino a condividere e riscattare la sofferenza e la morte. Per questo “Dio è amore” come afferma san Giovanni (prima lettera 4, 8). Ma l’essere amati – aspirazione e bisogno esaltante di ogni uomo – è terribilmente serio e impegnativo! Richiede un esodo interiore continuo, un esporsi all’amore dell’Altro che è Dio. Richiede di rinunciare a se stessi, diventare docili all’Amore e alle sue esigenze per rispondere con il nostro amore: “L’amore è il solo tra tutti i moti dell’anima, tra i sentimenti e gli affetti, con cui la creatura possa corrispondere al Creatore, anche se non alla pari (…) Perché non dovrebbe essere amato l’Amore?” (san Bernardo, Discorso sul Cantico dei Cantici, 83).

Ecco perché la fede cristiana ha una misura “alta”: alta e affascinante! Non è un sentimento vago, ma un rapporto da persona a Persona: è impegnarsi con Lui che si è impegnato con noi! Per questo la prima forma della carità evangelica è amare il Signore: anche quando non lo comprendiamo! Gli apostoli, alla scuola del Maestro, qualche volta hanno sentito più pesante la difficoltà di comprenderlo; ma sempre si sono arresi all’amore appellandosi alla sua presenza. “Forse, dobbiamo amare quello che non possiamo capire”, intuisce A.Camus nel suo celebre romanzo “La peste”. Come è centrata la risposta di un giovane militare a cui chiesi a bruciapelo: “Che cosa significa per te essere cristiano?”. Senza pensarci due volte mi rispose: “Non vergognarmi mai di Lui”!



Obbedienza fiduciosa

24. L’amore, anche tra gli uomini, se non si traduce in gesti concreti è vuoto, semplice dichiarazione sentimentale priva di consistenza. La vita non si costruisce sullo slancio emotivo: esso deve diventare gesto, opera, attenzione quotidiana e concreta. Gesù non ci ha amato a parole, ma con il fatto decisivo e sconvolgente della sua Incarnazione: prendendo la nostra carne mortale ha preso su di sé la condizione umana, ha condiviso tutto di noi eccetto il peccato. Ci ha amati, per così dire, “dall’interno”, aderendo a noi in un modo unico e sconvolgente. Fino alla croce.
E’ significativo che una delle immagini religiose che frequentemente trovo fra i militari è quella del volto sofferente di Cristo coronato di spine: un’immagine che in modo plastico e commovente esprime la misura e la concretezza di come Egli ci ha amati e continua ad amarci.
Ma anche ci ricorda che gli uomini, tutti, hanno bisogno che le immagini e i segni religiosi non siano cervellotici e astratti, ma semplici e immediati: che parlino direttamente alla fede e al cuore.

25. L’obbedienza alla Legge di Dio è un’altra forma della concretezza del nostro amore per Cristo, come afferma san Giovanni: “In questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi” (prima lettera 5, 3). Penso sia utile ricordare che la Legge di Dio non è un abito che viene imposto all’uomo dall’esterno, ma esprime ciò che è l’uomo in se stesso, nella sua profonda e immutabile natura. I dieci Comandamenti riflettono l’ordine della creazione che la ragione stessa può individuare: “Fin dalle origini Dio radicò nel cuore degli uomini i precetti della legge naturale. Poi si limita a richiamarli alla loro mente: è il Decalogo” (sant’Ireneo di Lione, Contro le eresie, 4, 15, 1).

Alla luce di queste considerazioni, invito ciascuno a chiedersi qual’ è la propria obbedienza alla Legge morale. Solo nella prospettiva dell’amore a Dio, i dieci Comandamenti, le Beatitudini evangeliche, le indicazioni morali della Chiesa potranno essere accolti e diventare puntuali criteri di vita. Solo in questo orizzonte la vita spirituale non sarà un evanescente miscuglio di sensazioni e di sentimenti, ma un percorso serio e concreto, sostenuto dalla fiducia nella grazia e ricco di frutti, come ricorda l’apostolo Paolo: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito (…) Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (…). Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Galati, 5, 16.22.25). In questa prospettiva, non esiste pericolo di “moralismo”.



Solidarietà evangelica

26. Ma non basta! “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli (…) Fratelli non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (Giovanni, prima lettera, 3, 16, 18). E ancora: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (idem 4, 20).
Alle sorgenti della vita spirituale, troviamo dunque anche la via della carità fraterna, il desiderio di fare della nostra vita un dono per gli altri. Nella storia, l’esempio sommo di come fare di noi stessi un dono è Cristo: Egli si è fatto dono per il mondo con il sacrificio di sé e continua a farsi dono attraverso l’Eucaristia, Pane di vita eterna. Il Concilio, con grande chiarezza, afferma che l’uomo in terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa e “non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un sincero dono di sé” (Gaudium et spes, 24).

L’esperienza insegna che quando siamo egoisti per paura di perdere qualcosa di noi, dell’esistenza, dei piaceri immediati, il risultato è la sensazione di aver gustato una soddisfazione in più, ma di essere sceso nella scala della stima di noi stessi e della felicità. Al contrario, quando in nome della generosità usciamo dai nostri calcoli rinunciando a qualcosa di nostro o di noi, la certezza è quella di ritrovarci su un piano più alto e nobile: ci sentiamo cresciuti come persone e come cristiani, spiritualmente più ricchi.

27. E’ quanto Gesù indica nel Vangelo in modo inequivocabile: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo la salverà. Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? ” (Marco 8, 35-36).
E’ la “regola d’oro”, il grande “segreto”: vuoi diventare adulto nello spirito, maturo nel cuore, forte nella fede? Sull’esempio di Cristo che si dona a tutti fino al sacrificio, fai di te stesso, dei tuoi talenti, della tua vita, un dono di servizio ai fratelli: in famiglia, sul lavoro, con gli amici, con chi ha bisogno. Forse non diventerai ricco e famoso, ma, noto al cuore di Dio, sarai felice. Ci sono uomini potenti e ricchi, che il mondo ammira e invidia, ma che sono degli infelici e, non di rado, dei gretti di spirito. La solidarietà evangelica conduce alla felicità del cuore, alla maturità della vita terrena, anticipo e promessa della vita eterna.

28. La carità fraterna ci spinge a guardarci attorno con occhi attenti per cogliere la sofferenza e il bisogno degli altri, per farci “samaritani” con la concretezza tempestiva delle opere. Ma non dobbiamo dimenticare che l’intervento pronto e generoso del buon samaritano nasce da un cuore aperto e disponibile. Potremmo dire che la carità “delle mani” scaturisce dalla carità “dell’anima”. Sant’Agostino descrive in modo magistrale questa sorgente interiore:
“Una volta per sempre ti viene dato questo precetto.
Ama e fa’ ciò che vuoi.
Se taci, taci per amore.
Se parli, parla per amore.
Se correggi, correggi per amore.
Se perdoni, perdona per amore.
Sia il tuo cuore radicato nell’amore.
Da questa radice non può uscire che del bene” (in 1 Ep Jo, VII, 8).

Perché le opere di carità nascano da un’anima caritatevole, è opportuno ricordare almeno tre presupposti.

* Sii umile. E’ necessario riconoscere in noi una tendenza al male. Il diavolo non si stanca di seminare zizzania nel cuore di ciascuno. L’egoismo, la gelosia, l’invidia, l’arrivismo, l’aggressività…sono forme del “non-amore”, e nessuno è esente dalla vigilanza su di sé e dalla lotta con sé. Solo l’umile sa guardarsi nella verità e sa vedere i fratelli nella misericordia.
* Ama te stesso. E’ una condizione per amare il prossimo. Certi cattivi umori, molti contrasti nei rapporti nascono dal fatto che non accettiamo noi stessi, non vogliamo bene a noi stessi. Non si tratta di amare i nostri difetti, ma di riconoscerli serenamente, accettarli per superarli con la forza della grazia. Così è per la nostra storia personale: nella vita di tutti vi sono pagine tristi e buie, torti dati e subiti. Non si può vivere in permanente lotta recriminando sul passato: è necessario accettarlo in una visione superiore di fede, credendo che il Crocifisso trae dal male occasione di bene. E’ necessario essere unificati per unificare, essere pacificati per pacificare.
* Amati fino a dimenticarti. C’è l’amore che riceve, che condivide, che dona, che perdona, che si dona. Infine, l’amore che s’immola come Gesù sul Calvario. Non cercare più noi stessi significa lasciar trasparire solo Dio con il suo puro amore: è una grazia. Per questo dobbiamo pregare per amare e amare pregando.

29. In questo contesto, mi è caro testimoniare la capillare rete di bontà operosa che continuamente vado scoprendo nella nostra Chiesa in Italia e all’estero. Con discrezione, le comunità cristiane delle diverse basi militari vivono la carità fraterna nella dimensione della vicinanza ai propri colleghi, della comprensione, dell’aiuto vicendevole e solidale. Questa attenzione è rivolta agli individui come alle famiglie, realtà che nel nostro mondo è sentita come un valore fondamentale.
In occasione delle mie visite pastorali all’estero, nelle missioni di pace, sempre ho constatato con ammirazione come i nostri militari sono per le popolazioni locali un punto di riferimento non solo per la sicurezza, ma altresì per gli aiuti umanitari e per le opere di ricostruzione. Questo anche per le realtà ecclesiali presenti in quei Paesi: Diocesi, parrocchie, comunità religiose. Attorno alle basi subito si crea una rete di rapporti solidali che, senza rumore e con continuità, contribuiscono al bene di tutti.

30. E’ ormai nota, e da tutti riconosciuta, la singolare “umanità” degli italiani, cioè quella particolare capacità d’ incontro, di dialogo, di comprensione che crea simpatia e fiducia, premessa di ogni positiva collaborazione. Si tratta della consolidata dote di rapportarsi alle situazioni difficili senza radicalizzazioni, con il desiderio di comprendere la complessità e di risolvere i conflitti in modo costruttivo. Con paziente dedizione, fiducia, e con il proprio sacrificio!
Non dobbiamo dimenticare che questo atteggiamento, che ispira comportamenti coerenti e che diventa “stile” apprezzato, ha radici precise. L’Italia, nonostante il secolarismo, respira il Vangelo. Il cristianesimo impregna l’ethos diffuso del nostro popolo anche se esistono palesi contraddizioni: il modo di sentire la vita, di concepire il valore di ogni persona, il rapporto pacifico con gli altri, il senso della solidarietà con chi è nella sofferenza e nel bisogno, è radicato nell’anima di tutti.
La presenza capillare delle Parrocchie, l’opera costante dei sacerdoti e dei consacrati, le tradizioni, le innumerevoli forme di aggregazione laicale, le molteplici espressioni della pietà popolare così radicata nel nostro Paese, diffondono il “buon profumo di Cristo”, del suo esempio e del suo Vangelo. Impastano la nostra umanità e ispirano ancora la cultura diffusa.

Neppure dobbiamo dimenticare la presenza e la forza educativa della famiglia italiana, nonostante le gravi difficoltà culturali e sociali. Deve affrontare delle vere e proprie aggressioni! Ciò nonostante, specialmente in certe zone del Paese, la realtà familiare resta solida e incisiva. I legami affettivi della famiglia sono sentiti e vissuti con gratitudine anche dai più giovani, che a volte portano il proprio sostegno anche a prezzo di grandi sacrifici.

Nella prospettiva della carità cristiana, raccomando di vivere le proprie responsabilità e di svolgere i propri compiti non come dominio e affermazione di sé, ma come servizio agli altri, ricordando che Cristo ha dato la vita per tutti e che ognuno ha la dignità di figlio di Dio.
Ma raccomando altresì che ciascuno individui alcuni gesti di amore e di servizio gratuito – non previsto già dai propri compiti – perché la dimensione della vita come “dono” si esprima con maggiore evidenza. In questo senso, la domenica può essere lo spazio più idoneo perché la dimensione del dono e della gratuità si attui, e il “giorno del Signore” diventi anche il “giorno della carità”: la visita ad un ammalato, un dono, una telefonata, una preghiera per i defunti al Cimitero…possono essere un segno dell’amore di Dio che tutti abbraccia.

L’ ascesi

31. Sembra fuori moda parlare di “ascesi”: essa significa “salita” e ogni salita esige “sforzo” e “metodo”. La mentalità corrente pare bandire questi valori come se fossero contrari alla gioia del Vangelo e al primato della Grazia: quindi disdicevoli alla vita spirituale. Come se bastassero il desiderio e la spontaneità personale per raggiungere una meta ardua. Il cammino spirituale non è una camminata spensierata, pianeggiante e trionfale. Non dimentichiamo: lo scopo è essere veri discepoli di Gesù, amici autentici dello Sposo. E questo è affascinante e arduo.

Essere figli di Dio è una grazia, ma vivere da figli è una responsabilità! Il primo e principale protagonista della vita spirituale – l’ho già rilevato - è lo Spirito Santo: la Sorgente di ogni altra sorgente. Per tale ragione la fiducia non deve mai venir meno. Nulla della nostra fragilità, neppure i nostri peccati, deve gettarci nello scoraggiamento e farci arrendere nella costruzione dell’uomo interiore. Assolutamente nulla! La potenza dello Spirito è più forte della nostra debolezza. Ma dobbiamo lasciarlo agire! Disporci nella via dell’ascesi, infatti, significa disporci all’azione viva e trasformante dello Spirito di Dio: è questo l’insegnamento di grandi maestri di spiritualità come santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce.

Entra in gioco, così, il secondo protagonista: la nostra libertà e quindi il nostro personale impegno. E’ illuminante l’esortazione dell’Apostolo: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro alle passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo” (Efesini 4, 22-23). In questa prospettiva, ho detto che l’ascesi cristiana richiede due inscindibili elementi: lo sforzo e il metodo.

32. Innanzitutto lo “sforzo”, la fatica. San Paolo, che fu folgorato da Cristo sulla via di Damasco, non fu esonerato dalla via dell’ascesi. Spesso descrive la vita cristiana come lotta e combattimento: “Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile” (1 Corinti 9, 24-25). Altrove, esorta il cristiano a comportarsi da buon soldato: “prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù” (2 Timoteo 2,3). Sono sullo sfondo le stesse parole del Maestro: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Matteo 16, 24). Lo sforzo cristiano, dunque, comporta rinuncia, abnegazione, accoglienza paziente della sofferenza.

33. L’altro elemento indispensabile dell’ascesi è il “metodo”, cioè un certo ordine. Nessun edificio è costruito solo con grandi sforzi di lavoro: richiede anche un progetto e delle priorità. Così, non basta individuare una meta: è necessario un “metodo”, cioè una “strada-alla-meta”. Nella vita spirituale, Gesù Cristo è la Meta e il Metodo: “Io sono la via, la verità e la vita”. E’ dunque il nostro rapporto vivo e quotidiano con la persona di Gesù e con la Chiesa il metodo fondamentale.

L’immagine della “palestra”, evocata da san Paolo, è particolarmente intuitiva ed efficace. Non si può raggiungere una abilità artistica o sportiva, una forma fisica, senza un allenamento puntuale e costante, senza una disciplina che richiede sacrificio. L’atleta deve conoscere quali parti del suo corpo deve curare e sviluppare per raggiungere lo scopo. Inoltre, deve allenarsi non ogni tanto secondo la voglia del momento, ma con perseveranza, anche ogni giorno, consapevole che solo nella ripetizione – sia dei gesti che degli atteggiamenti – il corpo e l’anima acquistano il gusto, la capacità e una certa facilità nel vivere determinati valori. Ricordiamo che sul piano ascetico e morale, la facilità nel fare il bene si chiama “virtù”!

L’asceta cristiano non è colui che sfida se stesso per affermarsi agli occhi propri o di altri; egli è alla ricerca di un progresso spirituale, della sua unificazione interiore in Cristo. E’ fiducioso ma non ingenuo: sa che nel suo cuore si scontrano il desiderio del bene e le inclinazioni disordinate; è consapevole dei suoi istinti e della debolezza della volontà; fa purtroppo l’esperienza del peccato; è alla ricerca della sua libertà perché sa che, in un certo senso, liberi non si nasce, si diventa. Per questo è necessario un lungo e faticoso esercizio.

34. Anche la rinuncia fa parte di questa palestra. E’ luogo comune – una vera falsità e violenza intellettuale – ritenere che qualunque rinuncia sia di per sé negazione della vita e di diritti individuali assoluti e intoccabili. Sembra che il successo dell’esistenza dipenda dall’accumulo di esperienze a prescindere dal giudizio etico. Nasce così una specie di frenesia che porta a quella che potremmo chiamare “sindrome di novità”: come se la calma ripetizione dei giorni, dei doveri, dei rapporti, degli affetti, fosse esecrata “monotonia” anziché fedeltà responsabile e feconda. Come se la felicità e la riuscita di una persona dipendessero dalla quantità delle cose provate e non piuttosto dalla qualità o, meglio, dalla loro bontà morale.

La vita concreta, e ancor più l’esempio di Gesù, dicono il contrario. Egli non esitò a rinunciare alle gioie immediate per un bene infinitamente più grande: la nostra salvezza attraverso la sua croce (cfr Ebrei 12). La rinuncia, dunque, riguarda non solo il male nelle sue diverse forme, ma anche certi beni a cui a volte dobbiamo rinunciare in nome di beni maggiori. Diversamente dalla mentalità corrente, è necessario essere convinti che non si può assaporare tutto: la vita quotidiana ci chiede di fare serenamente delle scelte: e scegliere significa non solo “prendere” ma anche “rinunciare”.

In questo contesto non possiamo dimenticare la grande legge delle “piccole cose” o dei “piccoli passi”: se non ci abituiamo a fare tanti piccoli atti buoni con animo grande, saremo in grado di fare grandi atti d’amore, di affrontare la misura dell’eroismo? Così, se non siamo capaci di rinunciare a delle piccole cose per amore di Gesù, di noi stessi, degli altri, come faremo a dire di no a grandi e allettanti tentazioni? Sono sempre attuali le parole dell’ “Imitazione di Cristo”: “Se non vinci i difetti piccoli e leggeri, come supererai i più difficili?” (Libro I, XI).

 

Alcuni punti dell’ascesi

35. Segnalo ora alcuni punti dell’ascesi consegnandoli a coloro che, lasciandosi stimolare da questa Lettera, vorranno iniziare o intensificare il proprio cammino di spiritualità. Naturalmente, dobbiamo considerare sempre l’orizzonte religioso e soprannaturale in cui ci muoviamo, consapevoli che non siamo noi gli artefici primi della nostra santificazione che ha nelle virtù teologali della fede, speranza e carità, la struttura portante. Lo Spirito Santo agisce nell’anima che si fa disponibile alla sua potenza trasfigurante.


Conoscenza di se stessi

36. Il punto di partenza è la conoscenza di noi stessi: nel bene e nel male. Con umiltà e fiducia dobbiamo guardarci così come siamo, evitando la duplice tentazione dell’ innamoramento di noi stessi, in una sorta di adolescenziale narcisismo, o di autorifiuto. Il Signore ci ama per quello che siamo; vuole che ognuno si conosca nella verità e che si voglia bene, cioè che si accetti con benevolenza. E’ solo da questo inizio che si può procedere in modo costruttivo. Ognuno si chieda quali sono i suoi pregi, quali i limiti costitutivi e i difetti acquisiti. Penso sia utile ricordare anche che gli aspetti peggiori di noi stessi sono sempre motivo di disagio per gli altri e, in fondo, di sofferenza per noi.
In genere, si arriva meglio alla conoscenza di sé chiedendo aiuto a qualcuno che ci vuol bene ed è in grado di dirci con verità e amore le cose come si vedono dall’esterno. Alludo alla tradizionale e preziosa figura del Padre o Direttore Spirituale.

Questa fase, in realtà mai conclusa, si accompagni sempre al ringraziamento a Dio perché ci ama per quello che siamo di buono e di bello: “Ti ho disegnato sulle palme delle mie mani” (Isaia 49,16). Si accompagni con la fiduciosa e mai interrotta preghiera perché lo Spirito Santo ci aiuti a crescere nel bene e a migliorare negli aspetti che non vanno.


Disciplina dei sentimenti

37. I sentimenti sono una grande ricchezza, sono energie da ordinare alla costruzione della persona e del cristiano. Fanno parte essenziale della vita spirituale. Sono risonanze della coscienza rispetto agli stimoli che provengono dal nostro mondo interiore o da quello esterno. La gioia, l’amore, il desiderio, l’entusiasmo, sono reazioni positive di simpatia e attrazione che coinvolgono la persona nel suo insieme; per contro, l’odio, la collera, la tristezza, la paura, sono reazioni negative che ci allontanano da persone, situazioni, luoghi.
Non sempre è facile, ma è necessario che la persona impari a guardare in volto i propri sentimenti, chiamarli per nome senza nasconderli a se stessa, decifrarli nelle loro cause e valutarli alla luce del buon senso e della fede. I sentimenti e le emozioni non devono diventare criterio di giudizio della vita, né in genere né di quella spirituale. Infatti non ogni sentimento, per il fatto di averlo, è motivato e meritevole del nostro credito. Bisogna in un certo senso “smascherarlo”, capire da dove proviene e dove sta andando, quali sono le cause vere e dove ci spinge, sia per non essere indotti in vie sbagliate sia per incanalare positivamente le grandi risorse della nostra sensibilità.
Non di rado, facendo questo esercizio per me, rivado, oltre che al Vangelo, all’insegnamento e all’esempio dei miei genitori, dei miei nonni, degli educatori del Seminario, di persone per me significative: la loro serena saggezza, la capacità di sdrammatizzare, la visione soprannaturale delle cose mi aiutano ancor oggi a leggere quello che il grande Alessandro Manzoni chiamava “il guazzabuglio del cuore umano” (I promessi sposi).


Disciplina del corpo

38. Anche il corpo, con le sue potenzialità e pulsioni, chiede di essere guidato. Altrimenti, come a volte accade, tiranneggia con i suoi bisogni spesso indotti o disordinati. In concreto, siamo qui richiamati alla sobrietà nel cibo, nel vestire, nell’uso dei beni di consumo. Se siamo onesti, è quanto mai opportuno ricuperare anche una certa custodia negli sguardi, il dominio dell’istinto sessuale, nonché riscoprire la preziosità delle conversazioni: sembra che sia ovvio guardare tutto per il gusto, non sempre limpido, di vedere. Così per il parlare: “se uno non manca nel parlare è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo” (Lettera di Giacomo 3,2).
L’unità del mondo interiore richiede di evitare le dispersioni, pretende di essere difeso da quella tendenza centrifuga che rende l’anima più un mercato chiassoso che un edificio armonioso e pacificante. Il nostro sguardo dovrebbe scegliere ciò che è degno e non essere catturato da ciò che si esibisce; i nostri discorsi dovrebbero tendere di più all’essenziale e alla comunicazione della verità e del bene, piuttosto che alla vanità, alla critica o peggio. Comprendiamo che la via dell’ascesi porta a farci ragionare di più su tutte le nostre azioni, dentro e fuori di noi, in vista di un maggiore dominio di noi stessi.