Indice
Introduzione
I. La scelta del tema
II. Verso il “centro"
III. La vita spirituale
IV. Le sorgenti della vita spirituale
V. Nel grembo della Chiesa
VI. Maria, Maestra di vita spirituale

Bagnasco

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VERSO IL “CENTRO”  

5. Nonostante le non poche luci del nostro tempo, la modernità non ha mantenuto la promessa di fondo: costruire un mondo più umano e sereno. Il valore del progresso e della funzionalità, se assunto a mito, rischia di ridurre la persona ad una sola dimensione, quella della materialità. La dimensione etica è spesso soppiantata dalle crescenti possibilità tecnologiche, per cui tutto ciò che è possibile tecnicamente è ritenuto legittimo moralmente. Così il grande dono della ragione, usata solo in chiave strumentale – in modo utilitaristico - mortifica l’uomo e lo rende incapace di ascoltare il mistero delle cose, di contemplare la realtà, di ritrovare l’unità con la natura e i suoi tempi. Soprattutto, lo ostacola nel riflettere sul senso ultimo di se stesso, del suo esistere e morire.
Già il grande pensatore italo-tedesco, Romano Guardini, metteva in guardia da un mondo puramente funzionale: “Non ci sarebbe posto in esso per il favore del dono, per il fiorire di una cosa nuova, per la riuscita, che rende felici, di una cosa perfetta, per il libero aprirsi del cuore” (Libertà, grazia e destino).

6. Ma l’uomo non può vivere a lungo così: in un modo o nell’altro, prima o dopo, si pone il perenne problema ed è costretto a “giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta” (A.Camus, Il mito di Sisifo, cap I). Anche se gli impegni della famiglia e del lavoro gli permettono di realizzare una dimensione significativa e importante, l’uomo cerca il senso globale dell’esistenza e non solo quello parziale delle singole azioni. Si tratta, in altre parole, della domanda antica quanto l’uomo, ma alla quale ognuno deve dare risposta personalmente: “Per quale scopo sono qui? La mia vita è utile a qualcuno? Che cosa c’è dopo la morte?”. Porsi questo interrogativo è indirizzarsi verso il “centro”, recuperare quella dimensione profonda dello spirito che una cultura orizzontale e pragmatica vorrebbe mettere tra parentesi. Trovato il “centro”, o rimesso a fuoco, è possibile costruire o continuare quell’edificio interiore che costituisce la struttura portante di ogni persona, la sua consistenza, e che chiamiamo “vita spirituale”.

7. Il fenomeno diffuso dell’occultismo e della superstizione, la suggestione delle filosofie orientali, la ricerca di spiritualità esoteriche, le diverse forme di New Age, sono segni, certamente distorti, dell’ intuizione che l’uomo non è riducibile ad una somma di bisogni fisici o di istanze psicologiche e affettive. Al fondo di certe tendenze, seppure inaccettabili, scorre la sensazione che la vita non è una pura sequenza di giorni e di anni fino al definitivo tramonto.
In ogni tempo e luogo, le culture attestano che l’uomo ha una percezione di sé decisamente più completa e alta: si percepisce come uno spirito immortale in unità profonda con la propria corporeità e in vitale rapporto con Dio: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen 1,26). Quanto più si avvicina al centro interiore dell’anima, tanto più diventa cosciente che il suo “centro” radicale e fondativo è fuori di sé: è Dio. E comprende che Dio gli chiede di aprirgli l’intima dimora dello spirito per incontrarlo nel vincolo dell’amore che crea e che salva.
Significativa è la testimonianza di uno storico greco del primo secolo dopo Cristo: “Se tu andassi in giro per il mondo, potresti trovare città prive di mura, che ignorano la scrittura, non hanno re, case, ricchezze, non fanno uso di monete, non conoscono teatri e palestre; ma nessuno vedrà, né vedrà mai, una città senza templi e senza divinità” (Plutarco, Contro Colote, 31).

8. Anche gli impegni e le preoccupazioni che riempiono le nostre giornate sono una sfida da prendere in debita considerazione: il rischio è quello di rincorrere le cose da fare, tanto da esserne presi e da rimanere alla superficie degli avvenimenti, dei rapporti con gli altri, di noi stessi…senza cogliere la dimensione più intima, l’anima. Esiste per tutti il pericolo di una specie di atrofia dello spirito.
Occorre tirarsi “fuori”, o meglio entrare in noi stessi, affacciarsi a quella realtà più profonda di noi che rischia di essere poco guardata, presi da mille cose immediate. Ma le cose più urgenti non sono sempre le più importanti. Si tratta di accogliere l’antica e attualissima esortazione di sant’Agostino: “Non uscire da te; rientra in te; nell’uomo interiore abita la verità”. La sua esperienza potrebbe essere anche nostra: “Tardi ti ho amato, bellezza antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che, se non esistessero in te, neppure avrebbero esistenza” (Confessioni, libro 10, 27).

9. C’è una condizione indispensabile per arrivare al “centro”: il silenzio. Oggi sembra si abbia paura del silenzio, forse perché fa sentire di essere soli, perché mette di fronte a se stessi. A volte la compagnia di sé spaventa: meglio il rumore assordante che distoglie da questo difficile confronto; meglio la compagnia chiassosa che illude di essere “insieme” mentre si è solo “accanto”.
La via per entrare in noi stessi, nel nostro cuore, è il silenzio e quindi la buona solitudine. Il Signore Gesù, nella sua missione terrena, non aveva neppure il tempo per mangiare, ma non esitava di lasciare le folle per ritirarsi in un luogo solitario e colmo di silenzio: “Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù” (Matteo 14, 23).
Ascoltiamo ancora il Guardini: “C’è in te un silenzio che si ascolta con l’anima. In questo silenzio l’ospite riposa, l’anima si risana” ( Lettere sull’ autoformazione). E’ questo il “silenzio buono” che ognuno deve cercare per fermare la corsa interiore e tornare sulle cose, per coglierne il significato e il valore, per rapportarle al fine per cui viviamo, perché da semplice cronaca diventino esperienza, anzi saggezza.

Esiste, per contro, un silenzio che possiamo definire “cattivo”, perché non è il luogo della verità ma segno di distanza e di distacco, spesso di risentimento. Il silenzio, quello abitato dalla ricerca e dal gusto della verità, non è mutismo. E’ il silenzio dei santi e dei profeti che entrano nella cella segreta dell’anima e incontrano se stessi nel mistero di Dio, fanno ordine nei sentimenti, riconoscono i propri errori. Qui gli accadimenti trovano la loro misura, il dolore diventa maestro di vita, le gioie si distinguono tra vere e false, le aspirazioni si rivelano ragionevoli oppure sproporzionate, le gioie si manifestano come doni e segnali verso la Meta. In una parola, nel silenzio pensoso l’anima riconosce se stessa, ordina la vita, si scopre importante per Dio, ne percepisce il richiamo. Suonano come un programma le parole di Giovanni Paolo II: “per poter comprendere e valutare nel modo giusto, dobbiamo creare oasi di silenzio, di interiorità e di preghiera”.